John Zorn veste un paio di pantaloni (mimetici con delle fastidiose stringhe appese) e una polo lisa (è sempre vestito così). Non è un esempio di eleganza, è piuttosto trasandato; sul palco si trova a suo agio, nel senso che a volte nemmeno sembra che pensi di stare su un palco.
Dave Douglas è minimale quanto basta riguardo alla sua figura esteriore: look essenziale e posa raccolta mentre suona. Non è mai fuori posto, non fa un passo falso, sul palco come nella musica.
Greg Cohen è uno spilungone bonaccione, lui sì che ti dà gusto nell'osservarlo: con il suo movimento dinoccolato, la camicia bianca e larga dalle maniche penzolanti, si avvinghia di fatto al suo faticoso strumento.
Joey Baron è un piccolo elfo pelato, la faccetta furba e maliziosa, vestito da cameriere, suda e si asciuga allo stesso tempo grazie all'aiuto delle sue nove braccia.
Cosa potreste aspettarvi da quattro tipini così? Il meglio.
Masada è veramente una 'fortezza', anche se qui l'ortodossia musicale ebraica e medio-orientale è frammista a stilemi tipici del free-jazz/black-power dei '70 (leggi Ornette) e del rock, a differenza degli avi Zeloti, durissimi e purissimi nelle loro convinzioni. E' una fortezza perchè, ormai sulla scena da più di 12 anni, questo progetto costituisce una delle poche certezze che ci rimangono in questo mondo oscillante e randomico.
Ed è per questo che mi reco per la seconda volta ad assistere al live di questi incredibili musicisti, nel sostanziale e sostanzioso scenario della Cavea dell'Auditorium di Roma: un palco immenso, tutto grigio; al centro, raccolti come a volersi concentrare tra di loro e avvincere vicendevolmente dai loro futuri disegni sonori, i quattro piccoli alfieri della cultura ebraica nel panorama della musica occidentale; le luci minimali e attentamente puntate su di loro. Silenzio assoluto.
La prima nota pesa sempre 80 Kg. Ti ci vuole un po' per digerirla e capire che ormai, come l'altra volta, sei stato ancora risucchiato nel vortice roteante e variegato per emozioni, colori, echi di suoni lontani e ombre di urla vicine, il vortice prodotto dalla voce dei loro strumenti, lancinante o soffice a seconda del caso.
E da lì tutto scorre veloce e quasi indolore attraverso le due tipiche forme di un brano masadiano: la prima aggressiva, veloce, sghemba, rutilante, a tratti violenta, sale e scende e ti colpisce in faccia grazie alle grandi capacità ritmiche di Greg e Joey e a quelle improvvisative di sfondamento di John e Dave. La seconda ti culla attraverso cellule ritmiche e melodiche tipiche della musica medio-orientale (scale orientali, modo frigio e tipici controtempi tra quick e slow, un po' come nel tango) ma davanti alle quali il compositore Zorn non si arrende, dandoti sempre schiaffetti ritmici sbilenchi che ti fanno sorridere e rammaricare mentre sogni.
Tutto questo è tenuto saldamente in pugno dalla mimica gestuale di quel pignolo di merda di Zorn il quale dirige mentre suona, suona mentre dirige, dirige e basta, suona mentre gli altri suonano, da dei segnali chiarissimi con lo strumento (un po' come il Miles di Spanish Key), la voce, la mano e nel fare tutto questo, pensate, suda! Intendiamoci: Zorn è compositore, direttore, arrangiatore ed esecutore di questo gruppo, ormai possiamo dirlo, storico e fondamentale. Ma non avrebbe volato così alto se:
- Dave Douglas non avesse avuto quella compostezza nell'accompagnare alla tromba il dimenarsi epilettico del sax di Zorn e non fosse stato l'artefice di quegli sprazzi melodici e armonici improvvisativi che ti fanno gridare al miracolo: lui va dove vuole, fa quello che vuole ma rispetta sempre gli spazi e i tempi musicali di tutti, tanto da farti pensare che le cose che improvvisa se le scriva prima di venire, in autobus.
- Joey Baron non fosse stato quello che è da sempre: un trattore ritmico e un cantore della batteria. Incredibile l'uso delle più diverse timbriche tra tamburi, bastoncini, fruste, spazzole, mani e stecche. Ma altrettanto abbacinante la lucidità e la passione nello scorporare ritmicamente in ogni modo possibile una frase in quel momento dettata dal contrabbasso del povero Greg.
- Greg Cohen non resistesse ogni volta agli assalti ritmici dettati da Zorn ed eseguiti da Baron in maniera ineccepibile, spesso cavalcando questo treno a vapore e imponendosi con i suoi walking funambolici ma sempre armonici (in tutti i sensi), venendo fuori come l'arcobaleno dopo la pioggia quando il tema del pezzo è affidato alla voce umana e disperata del suo contrabbasso, strumento del quale è un atletico poeta.
Grazie a questi magnifici quattro la serata di ieri (come quella di un anno fa) è stata un sogno. Ma ogni sogno dura e deve durare poco: il perfezionista Zorn suona per un'ora spaccata, poi rientra per il bis previsto. Altri dieci minuti e via ancora, stavolta per sempre dato che Baron smonta il leggio.
Solo la folla accorsa nella calda serata di Luglio, con la sua ovazione continua, costringe i quattro a concedere un ottimo tris che appaga finalmente gli animi voraci.
Tutti via a bere birra e a fare l'amore, ma non prima di aver strappato quattro autografi ai protagonisti apposti sulle pagine del bellissimo booklet del mio Sanhedrin (1994-1997, Unreleased Studio Recordings, Tzadik 2005) e farmi una foto con il mio amico John: io sono venuto male ma lui risulta più brutto. Grazie.
Masada in fin dei conti è come il buon vino: una volta che l'assaggi sai com'è, sai che ti piace e ogni anno che passa e invecchia è sempre migliore.
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