"Hundloka" è un disco che inevitabilmente bisogna ascoltare, tenere tra i dischi importanti di questi ultimi mesi dell'anno. E` collocabile tra "Hoarse Frenzy" di Rinaldi e "Festival" di Richard Youngs; trattasi di musica 'non-tecnica', 'non-virtuosistica', eppure profondamente innovativa nel carico d'aria fresca che ci regala. Ha dei punti in comune con lo Steffen Basho-Junghans dei due "Unknown Music", per una certa verve irrisoluta che gli fa negare strutture, ordini e collegamenti (non a caso il disco parte con un brano che sembra già in corso), e presenta qualche vicinanza col lavoro di Niblock se non fosse altro per una reiterazione minimalista che sfrutta il feedback e la risonanza come poche altre cose valide. Anders Dahl che si avvale di un complesso sistema di circuiti dronanti, probabilmente frutto di una lunghissima costruzione che può apparire casuale ma non lo è, inizia con una chitarra ondivaga e tagliente che serpenteggia con uno stile barocco, per poi puntare direttamente su un droneggio parecchio Vibracathedral Orchestra versione-non-grezza; poi il drone finisce ed il brano riprende la sua dinamica che tra bouzouki ed acustica, per via di un trattamento computeristico che va oltre i limiti dell'esecuzione, può sembrare più un raga in piena tempesta di noise, che un lavoro bluesgrass. Non a caso, la grandezza di dischi come questi è l'enorme sfruttamento del lowercase: Sawako che incontra Greg Malcom? Un taglio di tweeter eterodossi che si scontrano con dei campanellini sommersi di sabbia? Centinaia di alberi in combustione che cadono in un vaso di pesci rossi? Il primo brano si chiude con questi interrogativi ma con una stabilissima certezza: dentro queste zolle di marmo abbastanza rosicato, abbastanza Tsunoda, ogni tanto emerge un pizzico di corda, un tentativo di raga, ed il disco ritorna folk mentre un attimo prima sembrava musica concreta. Il secondo brano sviluppa dinamicamente le medesime altezze di un John Wall in odor lisergico-sciamanico: una commissione tra jazzismo da buddhità ed incantevoli effetti glitch che andrebbero studiati attentamente dal momento che questo tipo di trattamenti sono molto rari in dischi dove il glitch diventa un sistema di larvamento, un modo per risucchiare continuità . C'è qualcosa, certo, che forse non funziona: ed è l'archetto, il modo in cui il suono a volte viene mantenuto e tenuto senza slittamenti sempre sulla stessa altezza; forse è un problema di dinamiche, ma comincia la traccia tre e non sai se ti trovi su una base spaziale o in mezzo ad un deserto di notte e così comprendi che le dinamiche o quant'altro sono un problema anch'esso superato in dischi come questo, a metà strada tra un vuoto cosmico ed un raga barocco. Come si può definire questa musica: lunar-folk, glitch-dronante? Tra l'altro il disco dura 38:15 ma dato che ti ci perdi dentro hai bisogno di farlo girare almeno quelle due o tre volte per sentirti sazio. Da acquistare ad occhi chiusi. Grande, grandissimo lavoro.
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