Jason Kahn elude alla grande il proverbio `tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino`. Con “Sihl” prosegue, senza spostarsi di una virgola, lo studio iniziato ormai da anni su drones, trance e ripetitività . Solo qualche strumento a percussione e un synth analogico fanno da sfondo a questi dodici brani senza titolo, e proprio la mancanza di orpelli extra-sonori - latenti in una copertina ancor più scarna - è un invito a concentrarsi soltanto sulla musica. La divisione in dodici tracce, venate dallo stesso mood, esalta la ricchezza e la varietà di un approccio che troppo superficialmente definiamo spesso minimale. Vorrei qui sottolineare che una microvariazione è `una variazione` allo stesso modo in cui lo è una macrovariazione: due tonalità di rosso sono tanto differenti quanto lo sono un rosso ed un verde, ed il fatto che si assomigliano di più non annulla certo la loro differenza. Kahn è uno sciamano, a suo modo, una specie di stregone che batte e tempera il metallo creando suoni e risonanze che vanno a saturarsi, e le cui vibrazioni sembrano determinate più dalla consistenza dei materiali utilizzati che dalla densità o dalla intensità dei suoi battiti. La sua è una ricerca solipsistica, lontana dai luoghi comuni e dalle mode, da quelle passeggere come da quelle durature, a volte quasi sgradevole e sempre incompromissoria. So bene che è difficile consigliare il nuovo disco di un musicista dalla produzione forse eccessiva, tanto da rischiare una saturazione e una reazione di rifiuto da parte dei propri estimatori stessi, e pure...
che ne pensate se vi dicessi che questo è il Jason Kahn più convincente che ho ascoltato dai tempi di “Temporary Contemporary” dei Repeat?
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