Un morto non è una figura svenuta: un morto è il cadavere e quando si muore significa che così (non si) è (più). Uno muore e finisce tutto. Poveri noi quando i morti giungono a tormentarci in queste esperienze fonografiche, esperienze che sono ritorni nell'unico modo in cui si conoscono le parole, ovvero attraverso la voce e quello che comportano voci amabili o amate. John Balance è la voce: la si riconosce così perchè lui ne era il leader indiscusso (non solo dei Coil ma della voce stessa) e quella voce incisa a più di un anno dalla sua morte, suona alla stessa maniera in cui è sempre suonata. E la sua morte, qui, è un disvelamento perchè questo epilogo, anche curioso, blasfemo, per certi versi morboso, si poneva dal giorno della sua morte come l'interrogazione attorno a cosa, prima di morire, avesse o non avesse inciso. Si presuppone che la morte debba sempre essere consapevole di sé, ovvero che debba sempre, in taluni casi, rendere una spiegazione della sua ultimità e si presuppone che i grandi artisti debbano esprimersi in un modo più che differente, più che coinciso, se sanno che quello che ne resta, un momento prima della morte, debba essere la fine, l'ultimo segno. Sappiamo che la morte non è il morire e che Balance parlasse di morire e che evidentemente s'aspettasse la morte come la stessa disattesa del morire. La sua caduta ironica, laterale, ovvero possibilità di un'impossiblità stessa che è il morire comunque (e la morte mette fine a questo solo oscenamente). I grandi artisti suicidi hanno intriso il loro ultimo lavoro sempre di morte, di segni di morte, di prossimità alla fine, e dunque di vita vissuta come esplorazione di un senso (il senso mancato, il senso che per eccellenza ci manca). Balance non è un artista suicida: forse perchè è morto 1000 volte; ma stavolta è morto davvero e per caso, ed è possibile che prima di morire, o prima che si accorgesse di morire, davvero che non lo sapesse nemmeno o che non lo volesse nemmeno. Cosa si può dire quando si dice che non si sa di dover morire e nello stesso momento quando un intero lavoro artistico si presenta come l'emanazione del nero, di deragliamento inverosimile gettato sui limiti della verità ? Cosa si dice, se lo si dice, quando non si sa, per un incidente domestico, per una semplice caduta dalle scale, che quella è la morte, e che non si era pronti a dirla nè tantomeno a subirla? Cosa rende tragica i limiti di questa morte: trovarsi impreparati ad accoglierla? Trovarsi di fronte ad una conclusione beffarda e per questo meno dignitosa di tutte le altre? In "Ape of Naples" si dice quello che si è sempre detto ed allora la morte aggiunta non sta come nei grandi decessi in un'affermazione ulteriore, ma quanto piuttosto in quel valore aggiunto che è la morte reale, che viene finalmente ad allinearsi sulla morte artisticizzata, sopraesposta, che apparteneva al tema ossessivo di John Balance. La morte di Balance è il punto che si pone sul segno della morte, il momento di chiusura, precipitoso se la morte non fosse che un precipizio, a cui bisognava, qualora ci fosse stata, attingere alla fine, produrre la fine. Il primo dato sconcertante di "Ape of Naples" è per questo terribile: si presenta come un disco prodotto nell'assenza di qualcuno, probabilmente grazie a sovraincisioni successive, magari attraverso ritagli vocali, se non addirittura da veri e propri adattamenti sonori su scarti vocali e suona come un lavoro esattamente coiliano, forse il disco dei Coil più coiliano per eccellenza! E se John Balance avesse sempre lavorato in tal modo? Se avesse sempre cantato e registrato delle parole su cui interagire con dei suoni? Se fosse sempre stato così proprio per raggirare la morte, per sovresporsi, disimpegnarsi di fronte alla responsabilità del morire? Che l'originarietà essenziale dei Coil fosse lo scarto prodotto tra mondo reale e mondo sonoro, che questi due mondi all'ascolto di un loro disco si contrapponessero come le peggiori giustapposizioni, era la ragione che ci ha spinto ad adorare ogni loro produzione; ma che questo mondo con la morte di John Balance si disgelasse in tutto il suo universo fantasmatico, e sì, anche virtuale, d'impossibilità per eccellenza, questo è un ricorso che appartiene alla morte, e la morte è unica e si dà una volta soltanto e si dice anche da sola, ovvero testimonia la sua assenza sulla scena dell'apparizione. "Ape of Naples" quindi, per questo suo darsi, ora e definitivamente, rispetto a tutta la ciclicità coiliana, si presenta in sè già ora come il momento topico del topico, come il discorso che li detiene tutti ma li toglie tutti e quindi come il lavoro più eccellente perchè in sè contenente la morte; e la contiene, disgraziatamente, non solo come un presagio ma come una figura di non-ritorno.
'L'uomo è l'animale' che invoca 'il sacro': l'invocazione è paritaria al sacro ripetuto 16 volte in Fire of the Mind e 'gli angeli sono bestiali'. Già dalle prime parole del disco viene fuori uno scenario alla Wordsworth: ricorsi continui al sole, alla notte, alla fine, al decesso, alla malattia, al mistico. Balance dice: 'la morte è centrifuga': voleva forse dire che la morte centrifuga la morte? É un presagio alla Juana Castro quando scrive: 'Il sole era alto e il mio sangue s'innalzava dalla sua marea disegnandosi in onde'. John Balance appartiene a quella generazione venuta subito dopo Derek Jarman, in qualche modo ne contiene segni, presentimenti, paure. In Tattooed man si parla esattamente di morte ed amore. Sono questi i due grandi temi di John Balance. Dove giace quest'uomo che si è amato ed odiato se non nel buio, in qualche letto da qualche parte, che appare come l'irraggiungibile e contemporaneamente come il flusso di un età che viene descritta come 'the dark age of love'. Circa 80 anni fa Artaud dell'amore (tra l'altro) scriveva: 'E l'amore? Occorre levarsi da questa sporcizia ereditaria dove i nostri pidocchi astrali continuano a spaparanzarsi'. Tra tutti i brani, di cui qualcuno evidentemente aggiunto, traslato dall'altrove, riposto lì per ammantare, emerge Amber rain che dimostra l'infinità che sarebbero stati, se non per la morte, i Coil del futuro, che poi sono gli stessi di sempre, in bilico tra materia sublunare e pervasione mistica, tra parole impronunciabili e sottile decadence. Una musica che resta è una musica che non ha bisogno d'altro per esistere. Ciò che fa storia, ciò che non si sfinisce del presente, è esattamente quello che continua a risuonare, che continua a far sensazione ovunque. La musica dei Coil è una musica non-recensibile: resta una roccia debordante, in qualche modo parlarne non le rende merito, perchè appartiene, come anche nell'opera di Current 93 (che io sento fortemente apparentata se non altro come un alter-ego con questa) una forte pulsione di vitalismo e nello stesso tempo di nichilismo. Sono delle lungimiranze che ci possiamo permettere solo in un'epoca in cui gli estremi vengono concepiti come delle polluzioni caotiche, plastiche, ma mai ambigue, o lontane tra loro. La musica dei Coil non è elettronica, questo disco non è un disco elettronico, eppure è fatto di elettricità a forti dosi magnetiche, alchemiche e liriche. Evidentemente si perviene alla conclusione che l'essenza del dark si sia sempre generata in questi lidi e che questi stessi (vedi collaborazioni tra Six Ogans Of Admittance, Will Oldham & i Current 93) in un periodo così scopertamente spoglio di ideologie, abbiano intercorso a ricostruire dei firmamenti che una volta si volevano giustapposti e bloccati. I Coil degli ultimi anni, pur non rinunciando a quel firmamento profondamente oscuro che li pervadeva e che ci pervade, avevano puntato, forse con tutte le armi a disposizioni, armi atomiche e definitivamente ferenti, una plastica della composizione, che mischiava glitch, psicanalisi, teatro, contemporanea e vita in un unico testo impenetrabile eppure così marcatamente esponenziale da ferire in modo obliquo e massiccio chi veniva ad interessarsi alla loro musica. Scrive Blanchot: 'Poichè il desiderio di morire svaniva, non restava più in loro che morire. Senza reclamare niente dagli astri, morire sconsideratamente. Desiderare, cessare d'avere un rapporto con lo sguardo, non rivolgersi più verso il cielo; il desiderio è quello sviamento nel quale 'io' mi scredito: è così in rapporto con la notte senza stelle, questa notte di lentezza, d'insufficienza: andando alla deriva senza rive'.
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