Quando nell`articolo sulla musica sperimentale italiana, qualche mese fa, ne scrivevo come di una delle nuove musiciste più interessanti non mi immaginavo assolutamente un`evoluzione così vertiginosa. La Oliva, da allora, si è concentrata in modo più puntiglioso su quella che sembra essere la sua dote più rilevante, dal punto di vista artistico, e cioè la voce. E` andata così sviluppando un mood sempre più personale, pur inserendosi a pieno titolo in quella tradizione che occupa uno spazio virtuale situato longitudinalmente fra Billie Holiday e Tamia e trasversalmente fra Lisa Gerrard a Sainkho Namchylak. Le cose che più balzano all`orecchio sono la naturalezza e la semplicità che sottintendono a questo progresso apparentemente spontaneo, e sembra quasi che lei stessa non si renda conto dell`importanza di quello che sta facendo. E` stato detto: la voce = il respiro del corpo. Per Patrizia Oliva questa similitudine è ancor più vera, più viva, perchè la voce sembra proprio trasudare dal suo corpo, prendere forma intorno a lei e avvolgerla come una veste di morbida seta. “Pneuma” è il suo primo disco realizzato al di fuori del circuito nazionale e, seppure resti legato ad un`etichetta underground ed artigianale, mostra quella piccola dose in più di `professionalità ` necessaria ad un`affermazione su un circuito un po` più vasto rispetto a quello minimo dell`autoproduzione domestica. La struttura resta comunque ridotta ai minimi termini, se non addirittura scarnificata, con pochi suoni e la voce che gioca a sovrapporsi e intersecarsi in madrigali di superba bellezza. E` una voce che fluttua, sospesa nell`aria, eterea e poco terrena: specchio dell`anima oltre che respiro del corpo. Il primo pezzo è veramente impalpabile, con pochi suoni percussivi nello sfondo, e la voce lì a raddoppiarsi in intrecci che si dilatano a raggiera. Nel secondo brano, quasi una preghiera, il ricamo viene fatto con la voce recitata che scivola su un sottofondo di altre voci e rumori dal quotidiano. Poi c`è una filastrocca dolcissima, con la voce ancora sovrapposta ad espansioni di marca elettroacustica, almeno fin quando non finisce con l`echeggiare in linee trattate elettronicamente, quanto mai eteree, verso melodie celestiali. Segue un`altra splendida melodia, dal sapore folk pagano e atavico, che fa pensare intensamente ad alcune cose di Tamia. Il quinto brano inizia invece con un refrain, che potrebbe appartenere benissimo ad una rediviva Billie Holiday, ma si sviluppa poi in modo minimale con la sua riproposizione e sovrapposizione a catena. L`ultimo brano, il più lungo e dilatato, è sicuramente il più corposo, con suoni che si frangono e vanno a comporre un sogno di psichedelica malata mentre la voce è poco più che un`idea abbandonata nello sfondo. Le registrazioni di “Solo Voce” risalgono a qualche mese prima e il mood non si discosta eccessivamente da quello di “Pneuma”, a parte il fatto che non c`è una parte strumentale e i brani sono totalmente costituiti da improvvisazioni vocali che vengono sovrapposte in bellissimi giochi d`intarsio. Scampoli di canzone si accavallano con parti recitate, e/o con semplici vocalizzi, dando vita a polifonie corali in grado di far volare i più agili e mettere i brividi agli altri. Patrizia Oliva è ogni giorno più cosciente delle proprie possibilità ed è come il domatore di un circo che, una volta conosciute e ammaestrate, riesce a far fare alle proprie fiere ciò che vuole. Le fiere della Oliva, naturalmente, sono le `sue` voci.
Ho pensato di associare anche la recensione di “Songs To Cry By For The Golden Age Of Nothing” perché, pur essendo un lavoro estremamente diverso da quelli di Madame P, le due autrici sono legate da un profondo rapporto di amicizia, stima e collaborazione. Proprio in questi giorni stanno facendo una tournée assieme, dopo che nell`estate ne avevano già fatta un`altra, e il futuro prossimo le troverà probabilmente ancora in compagnia per alcune date negli Stati Uniti. L`unica cosa che le due donne hanno in comune, dal punto di vista artistico-espressivo, è invece la bellissima voce, che però Nora Keyes utilizza per dare forma a vere e proprie canzoni intese in modo classico. Sul palco appare come un ibrido con l`aspetto di Edith Piaf, il look di Bessie Smith e la voce del grande Tim Buckley e, anche nel suo caso, è bene osservare quanto poco ci sia di terreno. E` incredibile, ad esempio, il modo in cui tira fuori la voce dai polmoni, apparentemente con lo stesso sforzo che può servire per accendere un fiammifero (asciutto e in un giorno senza vento!?!). Il concerto del 3 Novembre a Bologna è stato intenso e commovente, con il solo accompagnamento di una chitarra e, a tratti, di una tastiera. Il disco d`esordio, del 2004, racchiude alcuni dei brani presentati nell`occasione, mentre altri di questi andranno a comporre il prossimo lavoro che è in preparazione. Gli arrangiamenti sono leggermente meno minimali rispetto al concerto, con appena qualcosa in più a livello di strumentazione, e s'ha l'impressione di una minima perdita d'intensità . Ma il livello rimane comunque altissimo e poi, subito dopo la breve introduzione Tomb Song, c'è quell`incredibile pezzo cabarettistico con il quale la Keyes ha aperto la data Bolognese. Una cosa veramente impagabile. Seguono un'altra manciata di splendide canzoni, che hanno radici nel folk e/o nel country, in buona parte scritte da lei stessa - ma con qualche escursione anche nel repertorio di alcuni autori classici come Jimmie Rodgers, Jacques Brel ed Eric Blau - e interpretate con una vena oscura che in qualche momento può ricordare i Current 93. Se vi siete persi i concerti cercate assolutamente di non perdervi il disco.
Cosa avete detto? Aspettate che ne parlino i giornali? Ah...
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