Una matrice di mole differente affiora dallo sciogliersi nel lettore di “Hex: Or Printing In The Infernal Method”. Veniamo bruscamente allontanati dalle trame neo-gotiche, da bosco oscuro e sperduto, degustate anni fa per merito del vecchio Dylan Carlson and company.
Gli Earth son tornati!!!
La loro ricomparsa si segnala con precisione, durante il mese di settembre, nell`anno appena sfumato. Una carriera partorita nelle vicinanze dei primi anni `90, con le spalle coperte da una produzione abbastanza policroma: sei dischi di una certa influenza nel settore, che centrano la propria origine nello sludge-doom espanso e dronato di “Earth 2” e del leggendario ep, “Extra-Capsular Extraction”.
Gli albori proseguono e terminano con scampoli di suono che attraggono sempre più un american old style in pura salsa western, tenue, di non molte pretese e di facile digestione.
Questa mutazione a favore di un format rock classico, parte da “Pentastar: In the Style Of Demos” (1996) e chiaramente lo si ri-trova qui, ancor più radicato ed in movimento. Si avvicina una distribuzione dei brani ampliata: nove segmenti ben comprensibili, avvolti da un solo cordone, che indicano con trasparenza l`adagiamento dei brani su tempi più corti, rispetto agli interminabili minuti del passato.
Il mentore rimane sin dalla formazione il vecchio Carlson (guitar/banjo/baritone guitar, ormai in coppia fissa dal 2002 con Adrienne Davies (drums/percussion/wind chime).
Le previsioni sono confermate dall`inizio snervato, in auge tra Mirage e Land Of Some Other Order: corde scosse in modo eroico e `cavalleresco`, carambolano da ogni direzione; la baritone guitar cavalca certa tra sentieri sinuosi, ma rilassati, dove si combinano morbide sensazioni desertiche (un rivolo di vento insabbiato che soffia impertinente...) e ruscelli paesaggistici morriconiani.
Palpitano visibilmente proporzioni ritmiche post-rock-iane: il basso `sfibrato`, la coccia mogwai-ana, lo strazio catatonico di The Dire and The Ever Circling Wolves.
Emozioni che trasformate in lettere, diverrebbero paesaggi à la John Steinbeck o visioni malinconiche uscite da “Ethan Frome” by Edith Wharton: chitarre che rappresentano e vivono al meglio l`America delle distanze ariose (lunghe, zen, smisurate, dei viaggi interminabili in mezzo alla sabbia, tra lande sconfinate, in sella alla propria moto o cavallo. Left In The Desert, Lens Of Unrectified Night: corde vellutate a colpi di sogni, sulla stregua di un afoso Angelo Badalamenti. Peccato solo che proseguendo in avanti, proviamo la tenue sensazione che il motivo, pian piano, con un moto circoncentrico, si ripeti con una certa furbizia, sfumando leggermente negli accenti.
Raiford (The Felon Wind), forse, si conserva tra i radi assaggi, capace di schiudere una stato delle cose, dove il doom e lo sludge di un tempo ritornano, tiepidamente, a bussare la porta; pregio, una posata raffica di riff che erti in piedi, come pieni conquistatori di un mondo silente...
e dimenticato...
come quello del nuovo continente, raffigurato a suon di morte e cupezza dall`art-design macabro di Stephen O`Malley (metà spirituale dei Sunn 0) per il booklet fotografico interno.
Non s`intravede di certo un capolavoro all`orizzonte, le vibrazioni di “Hex...” sostano certamente su stili piuttosto semplici. A colpire, più che altro e inevitabilmente, è lo spettro nostalgico posto da cornice all`intero percorso narrato e all`opera (tutta!) di derivazione earth-iana.
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