Interessante il punto di partenza. You`re in for it. Un brano che s`interpone fra l`ascoltatore ed il mondo circostante per mediare l`accesso alla nuova dimensione. Dopo due dischi strumentali ecco che, pronti via, compare una voce, lamentosa ed ingannevole, a rotolarsi fra le oscillazioni di una base dalla ritmica sconnessa e ad accompagnare un crescendo via via sempre più nervoso che riesce a liberarsi in cinque secondi di techno in overdrive, un`interiezione enigmatica fra due momenti (il prima e il dopo) sofferti. Subito infatti la caduta verticale. E siamo dentro “Helping Hand”, terza fatica dei Man. Un disco a suo modo parecchio ambizioso, complesso e problematico, che mi lascia un po` disorientato sia nell`ascolto che nelle considerazioni che l`ascolto mi suggerisce.
Cinquanta minuti non facili, durante i quali svariate suggestioni trovano posto all`interno di un percorso peraltro molto coerente. L`ambizione sta proprio nel tentativo di fondere queste diversità senza abbandonare la propria veste oscura e decadente già esibita con estrema efficacia nei precedenti due dischi. A conti fatti l`operazione è perfettamente riuscita, col valore aggiunto di riuscire a non ripetersi pur restando perfettamente riconoscibili. Se da un lato è dunque la consacrazione di uno stile, in cui classicismo e tradizione si contaminano di influssi e disadattamenti contemporanei, dall`altro si aprono sempre nuovi orizzonti possibili e per il momento incontenibili.
La varietà dei suoni e degli impulsi intercettati è elemento che discosta “Helping Hand” da “Arthur” e da “Main Gauche”, suoi predecessori, ma ne conserva l`anima sia nel connubio fra sperimentazione e melodia, sia nelle lunghe e riflessive parti di pianoforte lasciato in sostanziale solitudine, ma più spesso prologo od epilogo di schizofreniche e drammatiche progressioni. Si prenda Separatio, dove un Satie nottambulo, dopo aver vagato alla cieca per la boulevard si ritrova a tu per tu con la disperazione, e manifesta la metamorfosi in un urlo che la chitarra fa suo fino al crollo esanime. Lo stesso schema, più figlio dell`improvvisazione, è seguito in Farewell, accostandosi al post-jazz rumorista dei Kammerflimmer Kollektief, con la medesima eleganza, ed un`esperienza compositiva più sofferente.
Momenti di maggior quiete nella title track, influenzata dall`ambient e costantemente superiore alla media nell`intuizione, a restituire un po` di speranza, qualche tinta più morbida e fantasie di un cielo sereno.
Le incursioni in ambito elettronico sono molto frequenti e definiscono man mano una funzione diversa, un diverso livello di desertificazione, sia quando sono in prima linea come base e tutto il resto (oltre al brano d`apertura di cui s`è già detto, si prenda ad esempio Maiomie, un breve ed interlocutorio intermezzo, e Revenir, dai toni più sommessi nonostante si regga su una struttura ritmica molto presente alleviata da un diradato basso acustico) sia quando sul pavimento di un terreno incerto, rumori e fields recordings si srotolano con discrezione ed instabilità ossessiva, evocativi come non mai in Dirty Some Paper.. e nella conclusiva 8mm tutta sorretta nella sua prima parte dallo scorrere di una pellicola, forse rimando alle loro esperienze a confronto con le arti visive.
Poi la visione si offusca, le sensazioni si sovrappongono, ed il viaggio lo concludiamo di nuovo a bordo del pianoforte di Rasym, di nuovo in fuga lontano dalla luce, lontano dagli spettri del passato, incapaci di non guardare indietro così come di non andare avanti.
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