Questa recensione è certamente di parte, quindi diffidatene dal principio! Fabio Orsi è un caro amico, una persona con cui si stanno creando materiali sonori, e fingere equanimità , qui in sede di scrittura, significherebbe svisare con una finzione troppo imbellettata un legame schietto che mi accomuna a lui così come a chi leggerà quanto segue. A tre anni dalla sua costruzione finalmente esce "Osci", in un formato inusueto: Lp da 300 copie, su un'etichetta davvero audace come la Small Voices, e con un'opera di ripulimento/assestamento sonoro di un vero perfezionista ikediano della scena elettro/elettroacustica nostrana, ovvero Gianluca Becuzzi, in arte Kinetix. "Osci" non è il primo lavoro di Orsi, ma di certo è la sua prima uscita su un supporto ufficiale. Il disco è composto da due untitled suite di 18 minuti netti cadauna, la prima su di un lato, la seconda sull'altro. La storia del disco suona più o meno così: Fabio, napoletano ma tarantino di adozione, stanco dei circuiti festivalieri legati a taranta, vino e saghe paesane, 3 anni fa, con una frequenza di tipo ossessivo, se non maniacale, si presentò a tutti i festival legati alla tradizione popolare della sua terra. Se ne stava nascosto a captare come un vero agente della CIA ogni umore, suono, canto, tra atmosfere goliardiche di paese e danzatori ubriachi. Ogni notte se ne tornava a casa con un mucchietto di suoni e li travisava su un pc pronto a processare tutto quanto. Alla fine di questa carrellata tradizionalista, un po' come il "Ten cases of human aberration" di Strinqulu, viene fuori un'opera che prima ancora di parlare con un linguaggio sonoro, lo fa con una presa di coscienza forte, concretista e trasversalista, che nella sua essenza più significante usa i linguaggi della tradizione, che bloccano la spinta dell'avvenire, utilizzandoli come composizioni stranianti per un vero e proprio mezzo dronico.
"Osci" si presenta come un discacciamento lunarista, una mappa di perforazione ombrifera somigliante a quei sogni processuali che ravvoltano le sinapsi quando ostruiscono il Rem. Ha un plesso longitudinale disormeggiato che si spaccia come un curvimetro che misura tutti i segmenti che si distribuiscono ad ellissi nello spazio essenziale dell'orecchio e risponde alle stesse leggi di Dio che Eckhart attribuiva alla 'profondità dello spirito': 'Perciò è libero da tutte le cose, e perciò è tutte le cose'. Ogni momento sacro di questa corsa basinskiana pare irritrattabile come le dissuasioni date dai presagi in quei paesaggi di campagna che somigliano ad agri sepolcrati dove appare il giorno. Uno schizzo a matita accentato su una sistole in continuo stagliamento, i barbari da una parte, i flokloristi della plenitudine che si dibattono sul terreno dello scontro, e lui dall'altra, che li riprende come se questi barbari fossero morti in un nanosecondo ma cantassero in eterno la loro relatività . Osci è un prisma probabile, s'insinua in quelle macchine smaltatrici che smantellano continuamente la reboanza dell'acciaio e fanno realmente patire il tempo nessile del vissuto. Durante questi sbalzi vertiginosi di materia morente, e quindi vivente, o che sta per sfinirsi, nella prima traccia, c'è un'ipofonia davvero liberatoria: una voce che si recita dentro, che si consuma fuori, che pare mimarsi di farneticazioni per consuntivare forse l'umana indecenza di questo culto infinito che comincia dove finiva "Disengage" di O'Rourke. Il lavoro dell'arte consiste continuamente nel relativizzare la vita, nel portare in qualche modo la morte sulla scena colloquiale dell'impeto ed Osci è un disco di defunti e fa davvero paura perchè insorge come un nastro irrevocabile per mostrare che siamo perduti e che ci sono requie dovunque. Hobbes lo sapeva bene: 'l'unica passione della mia vita è stata la paura'. Eppure l'incontestabile forza che Osci sa di avere consiste nel modo in cui tratta il tempo: Niblock incontra i Gastr del Sol, ma al di là di nomi e cognomi, s'incontrano epidermidi, nodi materici, flussi sanguigni che praticano l'eredità di questa terra. Osci non è un disco nuovo. Non segue le mode che si seguono quando qualcuno decide di comunicare il proprio stato d'animo a patto anche di sembrare senza-tempo. Non utilizza un linguaggio ipertecnico con lo scopo di apparire alla moda per risultare addomesticabile. Per questa ragione questo disco sarà destinato nel corso degli anni ad essere la nuova pietra miliare della musica del domani, del presente e del passato. E` un disco che parla dell'uomo, che è diretto all'uomo, che si rivolge anche all'uomo quando non ci sarà più. I lidi che insegue sono quelli dell'inizio e della fine e per questo contempla tutto ciò che è, e tutto ciò che non è più, come se si trattasse della visione di un Dio che, congratulandosi con se stesso, ama anche nascondersi per apparire a turni alterni come una vera macchina della sparizione.
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