Accade che mentre indichiamo la presenza di una realtà a noi parallela, istantaneamente, questa indicazione ci preserva un orizzonte contemporaneamente parallelo, che è il fondo, un background materico, ossuto e deragliante, che la raffigurazione classica c'invita a chiamare "prospettiva", ma che una teoria della costellazioni chiamerebbe "buco nero", e che consiste nello sfondo, nel "retro" di ciò che appare agli occhi chiaramente. La manifestazione di questo "fondo", di questa prospettiva binaria dell'oggetto, la metafisica delle declinazioni nostalgiche la chiama "memoria"; è questa memoria che Gianluca Becuzzi qui ricuce con filo, aghi neurali e sinestetica precisione, dietro agli oggetti che mette in primo piano, che apparirebbero chiari ai suoi occhi ed ai nostri occhi, mette in funzione dei rimandi neri che io vedo somigliare ad un tramonto tarkovskijiano, che non è solo un tramonto ma pure un insieme di cose dentro questo tramonto: vento che sfiora alberi, piani sequenza che si muovono ma con l'anoressia del movimento, luoghi sfocati in lontananza che se apparissero chiari bucherebbero logicamente ogni preambolo di visibilità . Bergson in una delle più mirabili pagine sull'evoluzione creatrice, osservava come la memoria indicando la dissociazione e la distinzione di fronte alla ri-presa dell'evento, non registrerà l'attuale, ma si rappresenterà pure tutti i segni dello stadico come un contrasto e quindi un cambiamento, come un contrasto tra ciò che è stato e ciò che è. "Memory makes noise" per Gianluca rappresenta una pesantissima trasformazione, quasi una dislocazione comportamentale, tra Kinetix, ed il nome dell'autore che ora appare in primo piano, come se quasi questo passaggio, fosse l'incipt del lascito di una sigla, e contemporaneamente una precisa volontà di umanizzare il suo suono, implicando dentro la musica la materiail ricordo la memoria, ma più particolarmente, l'ascoltatore che lui stesso è, e dunque i suoi gusti personali, i suoi omaggi che vanno dalla concreta alla dronica tumefatta. E quindi ritorna sui suoi luoghi, sulla scena del cambiamento come in Bergson, rielabora frammenti di dischi altrui, senza nemmeno preoccuparsi di liquefarli perché, e questo è il punto forte del disco, il tempo crea rumore, sovrapposizioni ed i suoni qui convivono insieme al resto. Se nei lavori precedenti la differenza era data dal cambiamento della serie in continuità ripetitiva, qui il cambiamento rispetto al campione, e rispetto alla riconoscibilità del campione, non è dato dal processing (Becuzzi utilizza solo pochi filtri a quanto pare) ma dall`assembramento di un campione sull`altro, dalla continuità e dalla persistenza in cui i campioni si mantengono in uno spazio memoriale che li fa restare in parte sullo sfondo, e quindi in quel buco nero di cui si parlava all`inizio, in parte sul particolare dettaglio della vicinanza, che non è altro che una nuova memoria, una nuova visione della memoria. Il lavoro sonoro di Kinetix, come più di una volta mi sono trovato a dire, passava inevitabilmente dentro le maglie di un passatismo sonoro, a volte revisionista, altre volte commosso ed intrigante, che ricoglieva, sempre in una dimensione personale ma pericolosamente oltretempo, una serie di stigmate di portamento ikediano; era un lavoro simmetricamente intatto, organizzante, ma tuttavia rischiava, e questo sempre con molta volontà dietro, di presentarsi come una macchina in corso, come un potente meccanismo di vibrazioni ideografiche. "Memory makes noise" l'unica cosa che mantiene del precedente percorso di Kinetix è l'uso dell'interruzione, ovvero questi stacchi dati da un motivo e l'altro di noise, all'interno della composizione, stacchi di pochi secondi che è come se tagliassero radicalmente il lavoro in atto, e ne presentassero accanto un altro. L'uso del rumore bianco, come motivo di montaggio, è sempre stato un espediente di Kinetix, ma qui, in questo disco, il valore del "noise" ricompre una doppia semantica: da un lato serve all'avviamento della variazione, dall'altro ripercorre il meccanismo della memoria che crea noise, e che quindi si staglia improvvisamente su un altro piano in corso, avvitando i piani. Le tre lunghe composizioni, che simbolicamente si mantengono dentro l'ora, senza raggiungerla, si sgrovigliano dietro ombratili fragranze, intense, selvagge, a volte audacemente lopezziane. Mentre in Kinetix emergeva un resoconto matematico, intellettivo, freddo qui le cose si complicano, perchè le masse sonore restano fluttuanti come in una giungla di smeraldi a rifrangersi e trovano luce non dalla riflessione del sole ma dal riflettersi vicendevolmente in giochi ai limiti dello slittamento. Si tratta di un lavoro che mi ricorda molto da vicino quello del compositore Paul Panhuysen, e particolarmente "Lost for words", per questa funzione cumulante e scintillante del mantenere nella risonanza gran parte dell'effetto percettivo e del lavorio sensibile. E questi flussi, poi, quando sono troppo intrappolati, negativi, o dolenti, si accostano ad una mistica operistica, un'effetto a volte celestiale che può ricordare il Basinski più fisico e meno computeristico. "Memory makes noise" è un disco molto completo: mantiene dentro di sè la totalità , il caos, ma soprattutto è un lavoro sensibile, emotivo, profondamente astratto e poetico. Un disco fondamentale.
|