Forse esiste davvero un comune sentire nelle varie province dell`impero.
Prendete questi due dischi che, ben al di là delle analogie (1) e delle differenze (2) spicciole, hanno un mood profondamente e intensamente comune. Entrambi sono dischi del `dopo la corsa all`oro`, piccole colonne sonore per un viaggio immaginario attraverso praterie e deserti, in migrazione verso la frontiera, su carovane di carri, o lungo binari che portano di filato alla miniera che non c`è più, alle strade delle città fantasma, dove il vento urla fra i ruderi abbandonati, la polvere imperversa e `la ruggine non dorme mai`, oppure dove regna il silenzio più assoluto, rotto soltanto dal cigolare di una porta, o dal canto di qualche tordo randagio.
Eppure sono stati concepiti quasi agli antipodi, uno nell`ovest degli Stati Uniti e l`altro nel nord-est dell`Italia.
Per “Crown Of Marches” sono già stati fatti dei paragoni con Haino Keiji e, al di là della suggestione suggerita dal nero della copertina, mi trovano d`accordo, almeno per quanto riguarda `un` Haino Keiji, quello che finisce per ricordare `il` Neil Youg, e anche qui è bene usare il singolare, di epiche ballate elettriche come Cortez The Killer e Like A Hurricane. Smith - piuttosto noto negli ambiti del nu-folk e della nu-psichedelia per i progetti Hala Strana, Thuja e Mirza - suona organo, piano elettrico, timpani, cimbali `sfregati` con l`archetto, salterio, organetto meccanico provvisto di tastiera, campane noah e xaphoon (sassofono di bambù), però è la chitarra a dettare legge e nelle sue volute è possibile sentire quanto abbiamo già detto, ma anche gli echi delle esperienze lisergiche più acide e sperimentali.
“Horse Frenzy” è più pacato, ma altrettanto `forte`, e la sua ambientazione `libera` è talmente ben riuscita, `reale` direi, che neppure l'improvviso squillo di un telefono - una rivendicazione ben precisa sul carattere domestico delle registrazioni - riesce a riportare l`ascoltatore nella sfera della consuetudine. Comunque rimane la suggestione di fili d`erba e granelli di sabbia mossi dal vento, o di un orizzonte che sembra non avere fine, e il suono del telefono assume le sembianze di un miraggio. Questa miscela, impastata con fuggevoli note carpite ad un pianoforte, ad un dulcimer o ad una chitarra, con volute di suono sfuggite magicamente ad un harmonium o ad un organo, con incantevoli canti d`uccelli e con una voce che, quando c`è, mormora storie enigmatiche e improbabili, è un approdo ancor più nitido all`after the gold rush. E` rabbia sbollita. Anche qui potremmo azzardare un paragone con `un` Haino Keiji, quello febbricitante di "To Start With, Let's Remove The Colour!", e con `un` Neil Young, facciamo quello di “Dead Man”, ma sono appigli labili, sfuggenti, chè entrambi i dischi sono estremamente personali e originali.
Una cosa è certa, e vale per tutti e due i lavori, ed è l`allontanamento dalle fobie urbane, dal rock, dal funk, dal jazz, dall`elettronica, almeno nelle loro forme più becere, ed il ritorno alla `terra`. Un ritorno quasi rituale, sciamanico, da consumarsi nei deserti, nelle savane, nelle pampas, nei llanos, nei magredi, nelle steppe, nelle praterie, dovunque ci siano grandi spazi aperti... magari in un teepee piazzato sotto le stelle...
A cielo aperto.
L`ennesimo revival psichedelico? Non credo. Questa è la musica del 2005.
(1) Entrambi contengono un unico brano di durata pressochè simile, sono suonati essenzialmente da un'unica persona, vi è l`utilizzo di strumenti `antichi` affini (come salterio e dulcimer), sono tipiche produzioni domestiche (ma accuratissime e `professionali`) e possono essere definiti come psichedelici.
(2) Il primo è elettrico e l`altro essenzialmente acustico.
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