Tutto ciò che proviene dai violini delle feste paesane, la notte dentro luoghi deserti, quando una marea di ubriachi si riversano nelle stradine assortite in attesa di un nuovo giro di vino, è quello che fa di Quinn un essere più che adattabile alle risse di tavole arboree e tarlate, ai capogiri di mattinate andate notti prima in baraonda, ai fiori che si osservano dentro vasche di vetro e polline. Quando John Cale suonava la viola mitteleuropea in "Desertshore", trentacinque anni fa, anticipava come un sigillo la catartica reale dei polmoni più che spinti di Daniel Patrick Quinn: ai tempi lui non era ancora nato e Nico, che in quel disco riduceva tutto all`osso, sussurrava ad una generazione a venire la sintomatica della solitudine, l`estetica della sofferenza. Quello che distingue una canzone da una canzone comune è una buona canzone. Le buone canzoni sono virus che non ti lasciano stare. Tu puoi scordarle ma prima o poi saranno loro a chiamarti dentro la testa. Tu le ascolterai come fossero note che conosci, ma le buone canzoni non si conoscono nè si fanno conoscere. Tutto quello che appare indecifrabile rimane al linguaggio ignoto e la musica dovrebbe indagare solo lo spazio di questa incomprensione per rimanere sulla linea di una linea che delinea solo vuoti. Quinn è un ragazzo di appena ventiquattro anni, non è che alla soglia di un quarto di secolo, eppure allo stesso modo di Richard Youngs, fa a meno anche del mestiere e di quello che si definirebbe 'comunicazione', per metterci di fronte ad un vetro oltre il quale le cose continuano a sfinirsi ma nel senso di una partita che noi non conosciamo. Quinn ha prodotto nell`arco di soli due anni una discografia che appare coerentissima: tutta in cd-r senza che qualcuno di noi s`interessasse davvero a lui. Cosa sono questi suoni rigirati con un basso pendente che annunciano il disastro della storia in Clock House? E` forse il Poe moderno quello che conta i tic tic dell`orologio perchè i gatti hanno sette vite mentre la paura dei possessori di gatti ne ha solo una? Daniel Patrick Quinn fa finire tutti i brani proprio come cominciano: li lascia andare quando potrebbero apparirci inossidabili alla memoria: si chiudono sempre in dissolvenza, ma tutto è una dissolvenza dentro il suo oscuro lavoro. Channelikirk And The Surrounding Area è uno di quei brani che si possono suonare solo ai funerali: la sua voce impastata di mondo a noi appare come quelle cordate che fanno mille uomini per scampare ai pericoli di strade che si aprono come fossero pezzi di burro sciolti al sole. Ne ascoltiamo le note ma non ci sfuggono tutte quelle che suonano sottoterra e che fanno di ogni suo brano un doppio e triplo brano che continuerà a rigirare come un`ossessione della nostra memoria. Non si sa bene dove sia finita la grammatica ma questi pezzi dall`intonazione afona e le corde di queste chitarre indemoniate riducono il folk catatonico alla maestranza di balli voodoo ed il mondo si tinge d`argento. In Rough Music si sentono dei telefoni occupati: delle bacchette percuotono come una marcetta d`altri tempi un bordo rullante, ed i sintetizzatori, tutti suonati da lui insieme al resto, fanno spola con il vento e precisi colpi di basso. La musica è area, si perde nell`area e l`area l`infrange sconquassata su questi candelabri che non sono manco nuovi. La musica di questo sublime individuo è geometrica ma di quelle geometrie irregolari che non fai in tempo a studiare che già l`ambiente è diventato un triangolo irregolare e devi soltanto rimanere sulla sedia e sentire cosa ti dice questo spazio che cambia e che ti cambia. Sono convinto che dentro questo lavoro che lo stesso Quinn definisce avant-folk, ma che di avant ha poco e di folk ancora di meno, vi siano le stesse parole sottili e le stesse confessioni inconfessabili di “There Is No-One What Will Take Care Of You”: anche lì c`era qualcuno che dal suo ambiente domestico comunicava al mondo intero il peso della carne disgregante, gli amori lasciati come scatole di tonno ad infracidirsi, e le stesse distese di niente che ti condizionano se le osservi con quegli occhi che i minatori hanno quando escono dalle cave e risorgono in un modo che pare più pesante ed intransigente di qualunque pianeta inadatto ad ospitarci. Una nota speciale va riservata al pezzo più bello composto quest`anno che è The Burryman: si sentono le stesse cose che fanno di questo disco una pietra miliare della nuova scena folk eppure dentro Quinn minuetta con Duncan Grahl che ha 60 anni. Grahl è un poeta consumato ed ha certamente alzato il gomito prima di narrare la leggenda di quest`uomo muto delle nebbie che cammina per strade deserte con fiori al posto dei vestiti ricevendo whisky e soldi dalla gente che trova sul suo percorso. E` un brano pauroso perchè tutti alzano il bicchiere e brindano forse al superuomo e tu non hai scampo perchè ti manca lo stesso bicchiere con cui brindare. E` un bicchiere lasciato sul tavolo dell`ultima locanda che non va di moda: la gente che è lì ora è ancora lì, ti aspettano a patto che possa restarne seduto in eterno e finire parte di quel ciclo che chiama l`eterno e di quell`eterno indistinguibile che trattiene le leggende come fossero pezzi asportabili, mentre tutti quelli che erano con te si decidono a lasciar casa per visitare luoghi più sobri di questo ma per questo meno desiderabili.
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