Prima di tutto un `mea culpa`. Alcuni lettori hanno scritto a proposito del trattamento, secondo loro `troppo positivo`, riservato al doppio CD “Black Blues”. Sostengono che si tratta di un disco formale, eccessivamente calcolato e sfornito di quella libertà che da sempre caratterizza le realizzazioni migliori del giapponese. Devo prendere atto di queste valutazioni, essenzialmente corrette, e addebitare la mia nonchalance alla fretta di recensire il disco, alla stima che nutro nei confronti del musicista ed alla suggestione della formula - due CD con gli stessi brani proposti in forma carezzevole e granitica - che riuscì ad intrigarmi in modo eccessivo. Se è arduo giudicare i clichè degli altri è ancor più difficile sfuggire ai propri.
E` dunque con i piedi di piombo che mi sono avvicinato a “Uchu Ni Karamitsuiteiru Waga Itami”, anche perchè era stato annunciato come un disco di solo theremin digitale e mi aspettavo una interminabile sequela di insopportabili fischi. In realtà si tratta di un disco esclusivamente elettronico nel quale, accanto al theremin, vengono utilizzati anche dei sintetizzatori. E` un disco molto bello, seppure niente affatto innovativo, nel quale la storia va parzialmente a braccetto con la realtà del presente e che il musicista giapponese, nonostante qualche calo di temperatura dovuto a scivoloni verso amenità progressive e space, riesce a qualificare con un ardore e una poetica affatto personali. Particolarmente riuscita è la lunga quarta pista (sui ventotto minuti) che, dopo il mood `paesaggisticamente` alieno delle prime tre, riassesta parzialmente gli equilibri in direzione di una logica più terrena.
Pone meno problemi la recensione del più recente “Global Ancient Atmosphere”, dal momento che, essendo un disco di soli strumenti a percussione, sfoltisce già in partenza il numero degli interessati all`acquisto. Keiji Haino non è nuovo a questo tipo di approccio alla composizione musicale - si ricorda il video di un concerto basato sull`utilizzo di piccoli gong e/o cimbali (ma anche in “Tenshi No Gijinka” veniva fatto un largo uso di tali strumenti) - anche se è la prima volta che si cimenta in solitudine con quel tipico kit chiamato batteria (altrimenti lo aveva già fatto in “Origin`s Hesitation” dei Fushitsusha). Il risultato è dignitoso, per quanto il terreno è scivoloso, ma pure va considerato questo esperimento all`interno di un percorso relativo al musicista, e alla sua capacità non comune di proporre una poetica sostanzialmente personale indipendentemente dal tipo di strumentazione che ha a disposizione, evitando accuratamente ogni confronto con quei mostri sacri dello strumento che, ormai da decenni, vi hanno concentrato la loro attenzione, i loro studi e la loro pratica.
La vera novità a proposito di Keiji Haino è però rappresentata dai concerti italiani, dal momento che in precedenza non si era mai presentato sui nostri palchi per una verifica reale su quella consistenza concertistica di cui s'è narrato da sempre. Musicalmente non vi sono state novità e l`impostazione del concerto si è rivelata come un qualcosa di strettamente antologico ed enciclopedico. Nella fase iniziale il musicista si è limitato a stratificare dei loop di chitarra, poi ha scatenato una tempesta noise talmente voluminosa da far sembrare il teatro come un jet sul punto di decollare (ma con un'incredibile trasparenza di quell'ammasso sonoro, tanto che rimaneva nitida la stratificazione e l`intersecarsecazione di suoni e risonanze), successivamente si è spostato al tavolo dove si trovavano theremin e batteria elettronica, per tornare infine alla chitarra, sulla quale ha alternato momenti più soffusi, utilizzando anche la voce, con momenti più corposi, riproponendo brani di repertorio come Here e Satisfaction, e ricucendo il tutto con un assolo in classico stile hard-rock-blues. Ma chiunque, nonostante l`estrema bontà della performance, uscendo dal Teatro Ariosto di Reggio Emilia poteva affermare di avere visto concerti migliori di questo. Più che il materiale proposto hanno colpito le cuciture fra le varie sezioni, come il secco e ferino passaggio fra gli iniziali giochi di loop e la micidiale sinfonia noise, o come quello fra quest'ultima e l`esibizione al theremin, senza che si creasse il minimo spazio vuoto, nemmeno quel tanto da lasciar passare una lama di coltello. La presenza di Haino Keiji sul palco è indubbiamente carismatica, è come la danza di uno sciamano dagli scatti repentini che, in virtù del suo ascendente, è riuscito a farmi digerire anche i sibili del theremin. E pure credo che possa infastidire la sua misantropia o quell`atteggiamento, indubbiamente kitsch, da samurai decaduto. Probabilmente sono dovute a ciò, più che alla musica, le poche espressioni di diniego da parte di un pubblico meno numeroso del previsto (il teatro, nonostante la statura del musicista e nonostante questi fossero i suoi primi concerti italiani, non era affatto pieno). Un piccolo gruppo davanti a me se la rideva di gusto, e lo `scandalo` non stava tanto in quell`ilarità quanto nel fatto che non era comprensibile quale motivo la scatenasse, mentre in un momento particolarmente flebile ho sentito partire anche un colpo di coglione.
Pensate che le fratture del Commodoro Perry e di Hiroshima siano davvero materia superata?
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