Una probabile lettura del lavoro di Warren Burt, e 'questo' particolarmente, consiste nella ricerca dell'abbandono che è un modo più che idoneo per scardinare il centellinante studio microtonale e poietico-combinatorio che è dietro ogni passaggio di "The Animation Of Lists...". Questo doppio lavoro, esattamente nello stile di certe opere massimaliste, erudite e quindi oggettivabili dietro un sapore cerebrale, ossia un po' mortifero, passa tutto il codice saggistico alla scrittura interna, e come nelle opere di contemporanea, c'è il libretto pieno zeppo di note, di codici, di riferimenti storiografici dell'autore. E` una prassi certamente degna di valore, poichè serpenteggia dietro conoscenza e comprensione dell'opera, e può pure fornire qualche elemento di sicuro interesse, ma quello che emerge in questo caso, come in molti altri casi del genere, sta nel dislivello tra informazione e flusso sonoro. Dietro la microtonalità delle ottave esplorate in questo lavoro ripetitivo quanto sospeso ed interminabile, dietro la messinscena della continuità dialogica con il minimalismo di Michael Harrison sui principi della risonanza armonica per sola nota o di Kyle Gann sulla diffrazione simultanea e successiva dei tempi (la chiave è sempre la medesima: lo sfruttamento delle 37 tonalità per ottava), si nasconde tuttavia nel lavoro di Warren Burt il disimpegno di quanto accade oggi, anche in questi settori che sembrano così talmente statici ed accademici, e per questo forse, hanno bisogno di tutti questi aggiustamenti di tiro, di queste notarelle a piè pagina. Burt descrive se stesso come un anti-post-moderno e la prova che ci fornisce n'evidenzia però tutti i clichè di una modernità rimasta preistorica: l'accanimento scrittorio, la pulizia sonora che rasenta la new age, un certo primato della teoresi e non per ultimo, ma forse è un pregio, l'aria di contemporanea giapponese senza i post ma solo d'estrema glacialità che si respira in tutti e due i dischi. Emerge tuttavia particolarmente nella terza e quarta traccia del primo disco un venato firmamento dronico, frutto della risonanze che si accumulano di volta in volta dalle note, ma anche questa dimensione, in casi come questi che vogliono essere matematici, e provocare risultati matematici, si scontrano con l'effettiva esattezza di ciò che si sente, e viene ad accumularsi la solita idiosincrasia tra quello che l'autore voleva dire e quello che noi sentiamo davvero in un'opera. Si tratta di un problema molto diffuso nella musica del '900, nella contemporanea che fornisce a-priori dei tasselli interpretativi e filtra tutto il divenire di un'opera nelle larghe o strette maglie del vagito conico in cui vanno ad inserirsi commozione del fruitore e nitidezza dell'interpretazione. E` per certi aspetti una malattia, che in scala investe quasi tutte quante le opere sonore di un certo spessore che vogliono inserirsi in un corrispettivo storico e chiedere la loro parte sulla scena del mondo: tuttavia queste opere, e questa di Burt è una come tante, risentono profondamente dei riflussi che gli autori stessi seminano a forti dosi di teoria e convincimenti più o meno colti dell'efficacia delle loro opere. Si tratta di uno scarto terribile che provoca, come per me in questo caso, anche una profonda incomprensione e rassegnazione che la verità di cui si parla in questo libretto, sia a me ignara ed inconcepibile ma quello che ascolto almeno nel primo disco è una cifra di tocchi a risonanza, che sembrano i segnali di un vibrafono, o di uno strumento a tocco autocostruito e che vanno in tutte le direzioni tranne che quelle dell'anima. Tuttavia, e con l'ingresso del secondo dischetto che mi appare del tutto lontana la testimonianza di Bourdieu che insinuava lo scacco, o meglio la sfasatura, tra comprensione dell'opera e resistenza del fruitore, tra innovazione sonora e assuefazione sociologica. Questo perchè il secondo disco suona più o meno identico al primo ed è davvero poca cosa una monotonia di circa 130 minuti che va avanti a colpi di nozioni, risultati più o meno straordinari e discussioni estetologiche. Ed è qui, esattamente da questo punto, che, vuoi per caso, vuoi perchè si tratta di un doppio, che si presenta il lavoro di Gianluca Becuzzi. Kinetix e Warren Burt appartengono a due mondi praticamente opposti: ricercatore accademico il secondo e manipolatore isolazionista il primo. Burt manipola fonti sonore che suona lì per lì, Kinetix utilizza fonti più o meno distinguibili in quell'estetica del riciclo che il buon Burt troverebbe intollerante. Eppure entrambi sia per densità identitaria (ambedue sviluppano un suono puro, evocativo e non troppo lontano dalla lezione zen del nirvana) sia per un certo gusto del tempo (entrambi non si fermano al classico disco, amano suddividere i brani nella stessa durata, non dar loro nome e quindi ripiegarli nelle leggi asignificanti del suono puro non caricato da significati semantici ulteriori) viene quasi elementare associarli insieme. Il lavoro di Kinetix segue il filo di certe pubblicazioni di stampo minimal techno. una soluzione sonora ai limiti tra dronismo elettronico, pulsioni ikediane/notiane, un particolare uso dell'isolazionismo. A differenza del suo ultimo lavoro su Small voices, quello "Small Rooms" che tagliava come un diamante il sistema-suono di un disco che presentava una puntualità ed una pulizia sonora che rasentavano la neutralità macchinica, sebbene in questo lavoro vi sia la stessa cura e freddezza delle produzioni di Kinetix, manca quell'espressione più astratta ed a tratti disumana, mentre viene privilegiata la componente ritmica. Che ne viene fuori? Un disco che può, come suggeriscono le note essere letto contemporaneamente in shuffle all'altro, con due lettori, ma anche un doppio lavoro che può fare a meno della sincronia. In effetti il primo disco è composto da microsuoni, forse frutto di microfoniE a contatto e drone taglienti, il secondo invece non è troppo dissimile da quel "Cyclo" che qualche anno fa diede il battesimo ad un suono che oggi appare stanco e forse superfluo. Nulla di nuovo quindi, a parte, e non è cosa da poco, il tentativo riuscitissimo di unire a quel tessuto ritmico di "Cyclo" una componente Koneriana, da far suonare ai volumi desiderati, e nel modo desiderato o a caso. E` un tentativo che, indipendentemente dal discorso sull'obsolescenza sonora, crea direttamente o indirettamente una sicura gradevolezza, perchè fornisce al supporto una modalità plurima d'inneschi e permette allo stesso disco di essere sempre altro da sé, non fornendo una chiave monotematica, ma presentandosi sempre sul ridosso di qualcosa che cambia. E` allo stesso tempo però un percorso che indipendentemente dalla sua qualità teorica, e per certi versi anche pratica (a differenza del Burt non c'è bisogno di formulare pretese teorie armoniche su paginette e paginette sulla falsariga del compositore che resta incompreso o che parte già dal tentativo spiegazionale di fornire un'alibi per la sua stessa produzione) ha il difetto di somigliare troppo a qualcosa che si è ascoltato per troppo a lungo, e forse la stessa operazione ma con suoni e modi meno prevedibili non avrebbero guastato.
Due doppi lavori, due lavori certamente atipici e molto 'avant' già a partire dal formato e dalla modalità fruitiva: il primo con la pecca di essere un'unica cosa, una traccia monolitica che non dona nemmeno la grazia all'ascoltatore di cambiare disco e l'altra un'opera esatta, secca, fortemente ragionata e fascinosamente fredda, ma che nel disco nero si porta troppi tasselli e suoni e sculture che fanno parte di un dna sonoro (quello di Ikeda ed Alva Noto) che come lo presenti te li vedi davanti (ma hanno una presenza troppo ingombrante e definita e questo disco nero è troppo definito per non ricalcare in qualche modo la copia di quel lavoro che appartiene già allo storicismo sonoro).
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