Paavoharju è cieli torvi di sortilegi terapeutici attorno a cui deliberare nuovi rimedi, script basinskiano le cui caselle ormeggiano i lidi indubbiamente bucolici dei Flying saucer attack che più si amarono. Sbocciature di Casio, se ne vanno languide, con sotto musiche marocchine, chiese alcoliche dove si saturano le ultime istallazioni propedeutiche un attimo prima della caduta. Chitarrine, parole impronunciabili, suoni che vanno in ogni direzione! Quando Fennesz decise di lasciare il jazz, ed abbracciare laptops, voleva esattamente questo, quello che è qui, in questo disco: uno scrigno multipolare la cui detonazione distruggerà la musica del domani, perchè qui niente viene lasciato a patto di non essere risarcito dal suo presente perpetuo. Lavoro costruito in un arco di tempo oramai impensabile ai tempi veloci della musica, cioè tra il 2001-2005, innesca tutte le tensioni che vi sono state, placate: ricostituente per ogni sogno a venire, sintomo che sta al profondo e che permane all`attuale perchè non c`è presente che potrebbe trattenerlo o scalfirlo solo di poco. Sono esattamente le figure di Carroll quelle che l`accompagnano: materia fondente che si staglia sulla prossimità di un universo che la designava quiete nel trascinamento di un puro divenire alchemico: le voci si arrestano, l`atmosfera si assopisce, e tutto l`Oriente va a finire in Finlandia ed è l`apologia del caos. La musica di Paavoharju si concerta dietro scaglie di tempeste furibonde piene zeppe di rumori, accenti provenienti da altri films, da altri sogni, scompaginati, talvolta malati, che proiettano continuamente l`irrecuperabile dentro ad una soluzione costruttiva che somiglia ad un archivio sonoro lacerato ma sedizioso. Ci si immagina le divaricazioni di un disegno che annaspa come ellittico in materie di quarta quinta o sesta origine: i suoi rivoli si scorporano, vanno in troppe direzioni ma le iscrizioni che si compongono non sono più quelle del disegno quanto tutte le pieghe, le piaghe e le ampollose sussistenze che questa musica scorporandosi dal suo nucleo immaginario ha ricomposto fuori di sè come una macchina privilegiata che non intende separare pulsioni e ritenzioni. Che lo si chiami folk ambientale, o musica fatta con rumori aerei, suoni satanici e voci che non sono più voci ma canti gregoriani non importa. Un ulteriore prova di quanto sublime sia questa scena Finlandese di cui prima o poi qualcuno dovrà occuparsi.
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