"Ghost Man On First" è un disco del 2003, uscito parecchio in sordina. Rappresenta la svolta intimista di Kevin Barker, che all'attivo aveva una manciata di singoli ed un lavoro su Teenbeat di un anno prima. A fare da sfondo a "Ghost Man On First" è una chitarra, quasi sempre acustica, che si tiene su geometrie e folgorazioni lineari fatte di grammatiche elementari. Il materiale è quello del primitive folk, ma con una dislessia che talvolta lo fa virare verso settori impro, o comunque antidialettici. Il disco è un susseguirsi di dinamiche ora commemorative, come nella marziale A raga called Nina, ora fatte di riposi estatici come la tranquilla The tropics of cancer che richiama il fantasma faheyano laddove la sua esistenza non era ancora tormento ma fragile esalazione di passo (America, innanzitutto). Il rimando a Fahey, sì fa verticale, fraseggiato in Requiem for John Fahey, e qui segue il suo necessario scarto dato che l'autore si trova sul luogo del delitto: c'è un prato, uno stormo d'uccelli, un cielo che non appena diverrà nero lascerà soltanto che la meditazione sull'eterno accompagni il sorgere della luce. Currituck Co. disegna chiaroscuri, valichi di paesaggio, li sbrina e li sigilla e da lì passano commozione e parola. Il varco è memoria. E quel varco è una stanza dove si consuma tutto quanto dentro 4 pareti: perimetrate, cementificate. Un varco fatto di 4 metri quadri dentro cui si specchiano gli accordi che compongono queste soluzioni, a volte abbozzate, racchiuse dentro sinapsi in tumescenza che procedono per invocazione e decedono per violamento, talvolta riposanti ma mai dissuadenti. Fahey è nel dentro, è il fantasma dietro tutto questo, rinchuso 'dentro', l'ambito rammemorativo di un confessionale che può esplodere da un momento all`altro.
Con "Sleepwalks In The Garden Of The Dead Room", Barker approda al quarto lavoro. Siamo nel 2005 ed è cambiato certamente qualcosa. Il disco risulta subito cristallino, espurgato dai limiti che altrove apparivano ossessivi, eccessivi e molto ben registrato. La voce gioca il suo ruolo migliore, e gli apre la porta per il mondo, non più quello cameristico, ma quello delle praterie dove si consumano valanghe di riti orgiastici, organici. Paid for grace è immediatamente un capolavoro, un pezzo d'altri tempi, allucinato e trasognato quanto basta. Ogni tanto qua e là ritorna il fantasma di Fahey: ma è stemperato, meno lugubre di quello del disco precedente. Si comprende perfettamente che Currituck Co. sembra intraprendere una via al folk meno tortuosa ed oscura di Six Organs of Admittence ma non meno metodica ed autarchica.
Qui predomina il colore, la parola liberata, proporzionata mentre dall'altra parte predomina un certo spessore viola, minaccioso. 8pm on a friday sembra la perfetta integrazione dell'allontanamento dall'universo pulsivo del precedente lavoro. Il pezzo si gioca su costruzioni collocate dentro limiti gestiti con cura enorme, ma che fanno del disco la cosa più immediata, viva, quasi-concertistica. Ogni tanto qualche piccolo organo, qualche diavoleria, un loop, un semplice fraseggio reiterato reperiscono quell'inaspettata ricerca che si vorrebbe elettronica ma che qui traspare come sensibilità costruttivista, dialogica in piena controtendenza rispetto ai tempi, ai suoni, alle stelle. Wisdom for the weeks è il brano più lungo del lavoro, 10 minuti di totale estasi, con crescendo imprevisti ed un fluire, uno scorrere d'acqua, di mari, un field recordings allo stato brado, puro. Quello che si può dire è che questo personaggio ai margini di un'alba trasognata, stigmatizzata, recupera a tentoni, in incerta presa, con leale stasi un`intenzionalità non più da scavare dietro pietre fangose, quanto quella riemersa attraverso stormi e rugiade, con la durata dei bambini e l'altezza di quei sottili troni di ghiaccio che si scongelano per fare caosmosi di cristallo e bianco ovunque.
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