Pressappoco sette anni fa incontrai la musica di Oskar Aichinger. Quell`estate ero al massimo della forma. Il suono del suo pianoforte in un walkman sempre in play sulla spiaggia si rifrangeva insieme a piccole ondicelle che si portavano con se la sagoma dei miei piedi ogni volta che tornavano alla foce. Adoravo quel notturnale, ed il piano divenne quello strumento che segnò il passaggio dal naturalismo all`organicismo, per me. Il piano mi parve talmente solipsistico da farmi desiderare solo spiagge spoglie dell`umano rumore, spiagge notturne ma senza falò, soprattutto senza chitarre. Adoravo l`idea che il piano fosse uno di quei pochi strumenti in grado di comunicare da solo, senza l`ausilio di niente e di nessuno, se non del pianista stesso.
Harold Budd l`incontrai giovanissimo, molto prima di Aichinger. Fu quando acquistai “Moon and the melodies” dei Cocteau Twins. Fu particolarmente avvincente per me ritrovarsi di fronte a questa formazione del mio cuore allargata. Il disco non fu niente di speciale, lo sappiamo, ma quel piano lo salvava per qualche ragione a me ignota. Harold Budd ha segnato la musica di questi ultimi 30 anni, come quei corsari silenziosi, quei cavalieri uggiosi. Così introduco il disco nel lettore, ascolto il brano one, e mi ritornano mari, tempeste, e qualche lacrima minuscola. Immaginando che il disco travalichi la dimensione del concreto fino a spingersi nella metafisica celeste, spengo le luci, mi distendo e seguo l`idealismo assoluto. Tuttavia, in poco più che un passaggio, mi rendo conto che l`opera non è esattamente questo e che persegue altri lidi, altre soluzioni. Non è all`insegna dell`astrazione il resto. Assolutamente no.
Di Eraldo Bernocchi sappiamo che è un guru dell`elettronica italiana e non solo. E quando il disco comincia a conseguire direzioni rigorosamente dub, forse con qualche manierismo di troppo, è come se apparisse chiaro che c`è il rischio che queste sferzate portentose vadano a forzare le ventate dislocanti del piano di Budd, e giacchè questo è un disco fatto in due persone, che suonano in modi assolutamente differenti, pare che la cosiddetta 'minorità ' la si debba attribuire a Bernocchi più che a Budd che resta, forse troppo coperto rispetto ai volumi ed agli interventi eseguiti. Il suo piano ricama preziosissimi intrecci, spola in direzione di circoscrizioni languide, ma non trova dialogicità con le pesanti cariche ritmiche, che in quanto a novità , niente hanno di nuovo. "Sigillum S" è stato uno dei momenti più importanti delle tappe della musica italiana, ma questa registrazione avvenuta il 26.06.2003 al Palazzo delle Papesse al Centro D`arte Contemporanea, in funzione di una videoistallazione di “Fragments from the inside” di Petulia Mattioli, non so quanto possa fornirci 'l`oggetto' di ciò che lì veniva a crearsi. Non ha un valore squisitamente testimoniale perchè manca l`immagine. Del resto la durata del disco non aiuta certamente a variegare l`impressione, a sfornirla di negatività , non l`emancipa sulla cruna di episodi divergenti, non arricchisce il discorso di attribuzioni di valore ulteriore, semmai lo appesantisce, lo rinserra. E` come se le trame di questo lavoro si prosciugassero per colpa di un rimpasto troppo ingombrante, lo scheletro del programming ha qualcosa di prevedibile, troppo poco prevedibile il discorso armonico di Budd. Mi chiedo, ci si chiede, quanto la natura di questi movimenti possa rispondere concretamente all`esigenza dell`attualità : un po` il barocchismo di certi passaggi, talvolta una certa progressività incisiva, una tensione non lontana a certi suoni degli Almamegretta in epoca d`ora, una ridondanza pressochè continua nell`uso dei bassi stroncano tutta quella carica immaginaria che pareva ripresentarsi, ma senza contiguità e solo a tratti nella traccia seven. Peccato davvero.
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