Jon Mueller fa parte di quel novero di batteristi - con Jason Kahn, Ingar Zach, Matt Weston, Will Guthrie, Sean Meehan... - in cui, con varie sfumature, l`esperienza dello Stockhausen di Mikrophonie I si fonde con quella di Z`ev, quella di Sonny Murray si fonde con quella di Paul Lytton e quella di Charlemagne Palestine con quella di Günter Müller. In parole povere c`è un grande lavoro di sperimentazione sulle microfonazioni, sulle risonanze, sullo spazio circostante (il consiglio di Mueller è di ascoltare il disco al massimo volume in una grande stanza vuota), sulla preparazione di uno strumento che già di suo è `preparato` (utilizzo di pezzi anomali e modifica di quelli tradizionali) e sulle possibilità offerte dall`elettronica quando applicata ad un concetto che di base rimane `percussivo` (pure se vengono utilizzati altri strumenti: nel finale di questo disco, per esempio, sembra di sentire un pianoforte). Con varie sfumature... chè esistono delle peculiarità , delle differenze da musicista a musicista e da disco a disco. Il Mueller di questi due brani, per esempio, sembra più che altro impegnato nell`estremizzare il drumming di Murray e la `strumming music` di Palestine, andando a produrre delle vibrazioni continue che creano tensione giocando sui chiaro-scuri, sui pieni e sui vuoti, ma è pure depositario di un tribalismo di fondo che è quasi sempre assente in questo tipo di esperienze. Sarebbe azzardato sostenere che si tratta un disco innovativo, ma pure è un`opera dal grande fascino che non sfigurerà affatto nella vostra collezione di musiche per sole percussioni.
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