Ecco un batterista che è qualcosa di più di un batterista se non, addirittura, qualcosa di più del classico musicista, dal momento che fra le sfaccettature della sua attività è possibile incontrare l`organizzatore, l`agitatore, il tecnico, il produttore e il discografico (è lui il proprietario della Quakebasket), attività che lo elevano fino al ruolo di prototipo perfetto del musicista moderno.
Dal momento che non abbiamo ancora avuto l`occasione per parlare di Tim Barnes, pare giusto ripescare “All Acoustic”, un disco di sole percussioni che ne definisce l`estetica ed è destinato a funzionare, in un certo senso, da pietra d`angolo di tutto il suo lavoro. Barnes, in due lunghi brani totalmente acustici registrati nel Luglio del 2002, prende le distanze (si fa per dire) da molti suoi colleghi preferendo la `sensibilità ` del tocco alla manipolazione elettronica. Nel suo drumming la preminenza sembra essere del beat, e anche quando il beat è assente, il suo approccio appare comunque derivato da esso. E` una metodica, la sua, che lo accomuna a batteristi quali Tony Buck, Eddie Prévost e Milford Graves. In “All Acoustic”, pur non proponendo alcuna rivoluzione, Barnes riesce a distinguersi per un drumming `libero`, per una sensibilità e una raffinatezza senza limiti e per una fantasia altrettanto smisurata. Nelle sue collaborazioni, da Dean Roberts ai Minamo, si porta appresso queste sue qualità e un`attitudine segnata da una buona gradazione di curiosità . Le stesse qualità sono riproposte sia in “The Scotch Of St. James” sia in “Futuro” dove, pur non essendo protagonista assoluto (ma non è nella sua indole), il batterista instaura un rapporto di assoluta parità con gli altri musicisti.
Il disco con Wastell, dove l`inglese non suona l`abituale violoncello, ma un set formato da oggettistica (*), la tessitura è più distesa ed uniforme - non piatta, per carità !!! - ma presenta continuamente quelle piccole invenzioni e variazioni in grado di tenere desta l`attenzione.
Il confronto con i due giapponesi da vita ad un risultato più spigoloso, con Barnes attento a ricucire il diverbio fra la tromba di Masafumi (degno epigono di termini quali astrazione e assenza) e la chitarra di Tetuzi (rarefatta come quella di Taku ma ben più solida). Tetuzi, come fatto notare da Sergio Eletto nella recensione al suo disco con Martin Ng, sembra sempre più coinvolto `dalle varie sonorità che hanno attraversato la storia musicale del nuovo continente`, e in questa occasione parrebbe volersi mettere sulle tracce del Ry Cooder di “Paris, Texas” (magari miscelandolo con l`attitudine `stonata` di Derek Bailey). Il risultato di questo incontro a tre è piuttosto inusuale e brilla di una fulgida bellezza.
(*) Questo è ciò che si deduce dalla scarse note della confezione: amplified textures, tuned metal.
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