«...vorrei dire che esiste un`altra faccia del jazz che non è quella che ci viene presentata quotidianamente nei festival e nei seminari, anche perchè credo che il jazz non stia in uno stile o in un linguaggio ma nella perpetuazione della rivoluzione che per esempio dai primi passi di New Orleans ha portato allo swing, da questo al be bop e così via...» (Mirko Sabatini).
Se quanto affermava Sabatini una decina d`anni fa è vero, e ne sono fermamente convinto, ecco due CD che rispondono in pieno a quei principi.
Da una parte il riferimento sempre vivo alla verve più innovativa che ha attraversato il jazz nell`ultimo mezzo secolo e oltre: dal richiamo a Ornette Coleman nel primo titolo di “Mantic” a quelli a Steve Lacy nel sassofonismo di Mimmo; dal mood afro di Calcagnile, che ricorda Blackwell e Don Moye, a quello di Giust, che pare più prossimo a batteristi europei come Oxley, Lytton e Lovens; da un McDonas che fa pensare al Taylor più roccioso a un Marraffa che sembra voler ripercorrere quel filo di virulenza malata che da Shepp e Ayler porta a Mitchell (Roscoe), Brötzmann e Parker (Evan); per finire con un Iriondo che racchiude in se tutti quei tentativi di commistione fra jazz e rock sperimentale.
Dall'altra, a fare da contrappeso, un'attitidine e un'estetica contemporanee che sfuggono le anguste stanze del già detto e le spicciole logiche del facile ascolto.
I due CD possiedono numerose connessioni, a iniziare dal fatto che Mimmo suona nel primo e realizza il secondo nella sua Amirani Records. Anche la formula strumentale è simile: un trio con sassofono(i) e percussioni, con il pianoforte di McDonas da una parte e gli strani strumenti di Iriondo dall`altra (il mahai metak di sua creazione, un koto provvisto di tastiera e accorgimenti elettronici in tempo reale).
Si tratta quindi di due lavori che invitano al confronto, e accanto alle interdipendenze si notano comunque peculiarità specifiche e notevoli differenze, anche piuttosto marcate. Le differenze sembrano derivare soprattutto dalla diversa estrazione, sia d`ambiente sia generazionale, dei musicisti coinvolti.
“Polishing The Mirror” è fondamentalmente un disco austero, dove gli insiemi si alternano a improvvisazioni di tipo puntillistico, e dove Giust tende quasi sempre a smarcarsi da un`interpretazione propriamente, e puramente, ritmica. L`ensemble riesce inaspettatamente a funzionare a dispetto di qualche sospetto, indubbiamente lecito, dacchè con un pianista aggressivo e bestiale come McDonas a regola dovrebbe scapparci il morto, laddove alla resa dei conti i due pard reagiscono in modo più che dignitoso e tengono il passo dello scatenato americano senza sprecare nessuna battuta. Colpo su colpo.
“Mantic” appare molto più stonato, vista la presenza destabilizzante di Iriondo e la grande verve scenica di Calcagnile. Nell`occasione sembrava essere Mimmo l`elemento in pericolo, ma la sua capacità di adattamento e di inserimento all`interno di un sindacato così ferreo ha dello straordinario.
I due dischi hanno caratteristiche adattabili a qualsiasi tipo di pubblico, ma il primo potrebbe essere meglio accetto da un appassionato di jazz, chiaramente privo di paraocchi, mentre il secondo può tranquillamente deliziare le orecchie anche di coloro che seguono il rock più sperimentale. Entrambi, poi, sono consigliati ai seguaci delle nuove forme d`improvvisazione elettroacustica e/o non idiomatica.
|