"Sycamore Age", album di esordio dell`eponimo settetto aretino, è uno di quei dischi a cui si rimane legati indissolubilmente trascendendo il puro e semplice valore artistico. Che comunque è molto alto, perfino sorprendente per maturità se si pensa che siamo di fronte a una banda con la maggior parte degli elementi ai primi passi discografici (a quanto mi risulta, il solo Stefano Santoni, già Kiddycar, vantava esperienze di rilievo).
Si percepisce immediatamente di non essere di fronte al solito disco: "Sycamore Age" è un album che invita a essere ascoltato in continuazione, al limite della costrizione, rivelando di volta in volta passaggi nuovi, facendosi apprezzare per la cura negli arrangiamenti, la bellezza delle melodie, la varietà degli strumenti anche inusuali messi in campo, la personalità quasi ingombrante, lo sforzo compositivo nell`andare oltre la semplicità della canzone stereotipata.
Un disco terapeutico, un toccasana per questi tempi di downloading selvaggio, dove si ascolta di tutto e di più, spesso di tutto di più, ma ci si gusta poco o niente; la qualità in cambio della quantità , come ai (bei?) tempi del vinile (a proposito, è disponibile anche in questo formato), quando il fascino dell`oggetto iniziava dalle immagini di copertina, di cui si scrutava ogni minimo dettaglio, e finiva quando si rimetteva il pezzo nello scaffale, non prima di averne imparato a memoria tutti gli strumenti e tutti i componenti.
Un viaggio che attraversa quaranta e più anni di musica rock, il cui punto di partenza si fisserà a cavallo tra i sessanta e i settanta - diciamo dai Pink Floyd post-Barrett ai Van Der Graaf Generator con qualche puntatina nella Canterbury più leggera e raffinata - per arrivare ai giorni nostri, uso discreto ma presente dell`elettronica dentro la forma canzone e frammenti di folk-pop un po` strambo, per cui sono già stati menzionati da altri, secondo me giustamente, Radiohead, Fleet Foxes, Iron & Wine. Indizi confermati anche dalle foto interne dei musicisti, tra chi ostenta una voluminosa barba come i nuovi beniamini del rock alternativo, chi si presenta con una criniera degna dell`isola di Wight, chi con entrambe.
Perfino la scaletta del disco è scelta con dovizia piazzando all`inizio uno dei pezzi forti del loro repertorio, Binding Moon, sette minuti e mezzo di esemplare rock romantico, introdotto da una splendida melodia di pianoforte (tra Nyman e i Genesis del periodo "Selling England By The Pound") e impreziosito dai ricami vocali di Francesco Chimenti e dal suono cullante degli ottoni sullo sfondo, che segue la propria missione in un crescendo strumentale onirico, con il tema principale che ritorna di continuo, ad anello, come nei disegni migliori di Sufjan Stevens, anche se qui siamo in un contesto meno pop. Siamo già alle corde, ma prima di darci il colpo di grazia i sette ci lavorano ai fianchi con At The Biggest Tree, acustico etno-folk con disturbi discreti come se si avesse paura di rompere l`incantesimo; Dark And Pretty Part Two è poco più di un intermezzo mentre My Bifid Sirens è l`ideale per confutare la lunga digressione iniziale: tra le pieghe del brano piacevoli ricordi di tante stagioni fa compreso qualche eccessivo barocchismo. E` nei pezzi come questo e come Binding Moon che emerge in maniera forte e decisa la creatività del complesso, l`infinita ricerca di soluzioni inedite e originali, il continuo dispensare sorprese sonore pezzo dopo pezzo e sovente anche all`interno dello stesso pezzo. Andando avanti, troviamo la ballata classicheggiante Romance, sicuramente il passaggio più lineare dell`albo, e di seguito, un bel poker di assi: Heavy Branches è pathos al massimo livello, How To Hunt A Giant Butterfly sono i Goblin (quelli della colonna sonora di "Profondo Rosso" di Dario Argento) alle prese col kraut rock mentre i giochi di voci e una specie di carillon incantato conducono Dark And Pretty verso il sognante folk di Happy!!!. Il colpo del ko arriva con lo stravagante oggetto misterioso Astonished Birds; prima di crollare al tappeto, giusto il tempo per gustare il surreale e ironico bozzetto Kelly!!! e la ballata intimista Tears And Fire, il cui passo felpato e la presenza degli archi stimolano preziosi contatti con certe dimenticate delizie di inizio novanta (a chi piace, consiglio di ascoltare "Angel N.1" dei Mirò).
Che dire ancora? La prima scommessa, quella di far convivere i tanti idiomi presenti nel loro bagaglio musicale e culturale in un suono personale, è stravinta. La prossima sarà di riuscire a perfezionare questa creatura nata già grande. E occhio, perchè dal vivo fanno veramente impressione.
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