Nella lezione anticonformista dell'ultimo Vida, c'è certamente in gioco uno spostamento vigoroso del modello: dall'India all'Africa. Non è un caso che Vida, partito con i Town & Country in un progetto che come unico limite, evidentemente, presentava il fatto di non essere tecnicamente all'altezza dei modelli d'ispirazione: Leo Kottke, l'O'Rourke di Happy days, il Conrad + Faust d'annata..., qui, nel medesimo gioco di parti, e con un pizzico di semplificazione che rende questo disco un'operazione vagamente surreale ma dalle basi insolite e talvolta angoscianti, si spinge con l'utilizzo della Mbira, del field recordings come soluzione riempitiva, dell'analogia cheap come fattore di continuità armonica tra spostamenti e didascalie molto fragili. Il precedente disco di Bird Show già accarezzava l'ipotesi di alleggerirsi, utilizzando i canoni molto compiaciuti di un'etichetta che ha vissuto forti momenti di precarietà e che non a caso stava soccombendo sotto i colpi di una mancanza d'ispirazione quasi quinquennale, quella Kranky che ora, sta cercando in Litchens, Vida, Charalambides, Boduf Songs, e soprattutto Gregg Kowalsky una via per riproporre la medesima sensibilità ambient dei primi tre lavori di Labradford, ma in un'ottica più moderna e naif. Si sa che i tempi cambiano e che quello che ieri, soprattutto in funzione di un tempo storiografico, appariva strepitoso, oggi appartiene ad un DNA che in qualche modo risulta antico, anacronistico e paurosamente stantio. E così come la Kranky cerca di emergere dalle pastose sferzate psych-ambient d'annata, allo stesso modo Vida cerca di modularsi attorno ad una nuova figura di cantautore che a differenza dei suoi coetanei, su tutti In Gowan Ring, mira al sud del mondo, strizzando un occhio a Robert Wyatt, un po' per come canta, un po' per la naturalezza con cui gestisce i tempi. E così dietro operazioni di re-styling (Vida non potrà ripresentare all'infinito lo stesso giro ipnotico dei Town & Country nè ripercorrere in modo molto forzato la vena impro appoggiandosi sulla genialità di Fred Lonberg-Holm coi suoi Pillow) nasce un disco con incredibili canzoni, tutte molto brevi per i tempi a cui siamo stati abituati dal Vida del suo primo disco solista, che trovano nella ripetizione (per questo a Vida piace l'Africa nera) e nell'ipnotismo, e forse in una lezione vocale che Litchens conosce meglio, una nuova formula sonora. Questo, a mio parere, è uno dei più importanti dischi dell'anno; Vida, che ho avuto modo d'incontrare nuovamente per un suo nuovo live, conosce perfettamente i suoi punti di forza, e considerandone l'esperienza di agitatore della scena folk, nonchè di validissimo ascoltatore, pare interessato a nuovi cambi di registro imminenti. La sua bravura consiste nel non appoggiarsi ad un modello prestabilito e girarsi sempre intorno: questo gli rinnova le qualità di musicista ma soprattutto lo fa intervenire sui tempi della musica con una marcia in più che pochi musicisti hanno, e ce l'hanno se sono molto sensibili. Mi auguro che questo "Lighting Ghost", importante punto di non-ritorno per la Kranky, per lui e per quello di cui avevamo bisogno di sentire, possa essere il suo personale testamento per l'Africa e per il Congotronics (Beautiful Spring è un suo personale omaggio a questo gruppo di artisti totali) allo stesso modo con cui Fahey rese omaggio al suo maestro Basho con "The Yellow Princess".
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