Metà delle Scorces, un terzo dei Charalambides e una volta in forze con gli Ash Castles, la texana Heather Leigh Murray fotografa in queste tracce la sua sinora unica uscita solista. Già dal titolo è possibile comprendere, anche se sommariamente, quello che vi è contenuto: il 'cuatro' è uno strumento acustico portoricano e viene qui dolcemente pizzicato, per far da contrappunto a dolci linee vocali, apparentemente prive di parole. Sembra tutto molto semplice, probabilmente lo è: ed allora, perchè questo disco stenta ad abbandonare il lettore? Il primo riferimento che mi è balzato in mente ascoltandolo è stato Henry Flynt, il suo Marines Hymn del 1971, contenuto in "Raga Electric"; anche lì, una voce forse salmodiante, una linea melodica semplice ed un pezzo cui giova essere ascoltato per ore intere di filato, in loop. E forse è sciocco andare a ricercare nella contro/cultura occidentale riferimenti che senza fatica, in questo caso, rifulgono evidenti dalle parti di tradizioni tribali più che intrinsecamente sciamaniche, immensi cieli stellati e gente intorno al fuoco, storie tramandate in lingue sconosciute o semplicemente dimenticate. C'è, nella semplicità di queste tracce, quella che vedo come una dichiarazione umana: che passa per una assenza di artefizi (che, per inciso, gioverebbe all'intero della musica moderna), per una forma canzone che perde i suoi confini originari e si fonde, si scioglie, evocando un 'bardo' (inteso in senso tibetano) che, appunto, libera attraverso l'udire, libera attraverso il 'sentire'. Una voce, un suono altro come un piccolo ruscello, avvincente come le trappole lo sono, mosso da qualcosa come una canna di bamboo si muoverebbe nel vento, una deriva senza testimoni, un albero caduto ... Scorces e Charalambides, di cui appunto Heather fa parte, si situano in una scena nuova alle orecchie dei media e forse a quelle degli ascoltatori, assieme a Six Organs of Admittance, a Tower Recordings - una scena che si origina nei canti navajo, passa per la solitudine dei cowboys e si trasforma per Dark was the night di Blind Willie Johnson, e procede tra abbagli psichedelici, occhi che scrutano deserti e desolazioni, e forma una unica storia possibile dell'anima di un paese tristemente noto per motivi che l'anima la distruggono: un blues che ha smesso di soffrire, ed ora, in senso buddista, 'contempla'. E nell'estasi sospesa di questa contemplazione ci dona alcune delle pagine più belle della musica odierna. In questo disco, uno dei più sconosciuti della scena, un'opera minore, distribuita su un CD-R in troppe poche copie, c'è tutto: la voce che reca i segni di chi un tempo ha sofferto, ma ora, sola in una stanza, chiude gli occhi, e canta la sua anima. Con divina passione, appena sussurrata, finchè fuori non esiste più nulla.
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