A meno di non essere fan sfegatati che hanno ascoltato tutto quello che hanno fatto, cosa che io non sono, è un`impresa difficile consigliare un disco di questi musicisti che hanno sulle spalle una messe spaventosa di pubblicazioni. Comunque il primo dei tre mi sembra un`opera degna di considerazione. Ma prima cerchiamo di inquadrare il pianista Van Veenendaal e il sassofonista Ab Baars, due jazzisti e/o improvvisatori olandesi della seconda generazione succeduta a quella degli Han Bennink, Misha Mengelberg, Willem Breuker..., rispetto alla quale appare storicamente molto meno importante. Non ha infatti, sfondato nessuna porta chiusa e si è inserita in modo non troppo dirompente sella scia tracciata dai padri. Ma, bisogna riconoscere, che se da una parte ha avuto vita facile per imporsi ad un pubblico già preparato, dall`altra ha dovuto sudare le proverbiali sette camicie per trovare una propria linea espressiva personale ed originale.
Van Veenendaal è un esperto di piano preparato, e trovo che il suo lavoro in tal senso, rispetto a quello di altri musicisti, volge meno alla concettualità in favore di una sua personale funzionalità . Alla base delle sue preparazioni non sembrano esserci concetti destrutturanti o inceppanti nei confronti dello strumento, bensì la precisa volontà di arricchirne il già capiente bagaglio sonoro. In particolare si percepisce l`intento di dare risalto alle componenti metalliche e ritmiche dello strumento, innestando in una tastiera già ibrida e ben diversa dalle cosiddette tastiere aerofone e elettrofone (organi e tastiere elettriche o elettroniche). Con il pianoforte s`è creato questo frankenstein che vede miscelate le caratteristiche della tastiera, dello strumento a corde e dello strumento a percussione. Basta quindi esaltare e/o sminuire uno degli elementi per cambiare la percezione, e alcune manipolazioni di questo tipo sono già possibili a mani nude, basta ad esempio percuotere o pizzicare direttamente le corde all`interno della cassa armonica. Van Veenendaal, come s`è detto, amplifica le timbriche metalliche e le componenti ritmiche tanto da poter ricordare lamellofoni come la mbira, metallofoni come il glockenspiel e altri strumenti a percussione orientali. Se il suono classico del pianoforte ne risulta inselvatichito, resta comunque disponibile una gamma timbrica ben più consistente di quella associabile a tutti gli strumenti citati, tanto che in alcuni momenti parrebbe impegnato non un singolo musicista ma una piccola `gamelan` del sud-est asiatico. Ne vengono fuori 16 brevi piste - ad esclusione del cinematografico titolo iniziale e di quello che da il nome al CD, entrambi di oltre 5 minuti - ben caratterizzate e con una stupefacente ripresa della mingusiana Goodbye Pork Pie Hat.
Su un livello inferiore, o meglio più standardizzato, si pone “Time To Do My Lions” di Ab Baars. Ne è passato di tempo da quando Coleman Hawkins, Eric Dolphy e Anthony Braxton fissarono su disco i primi brani per solo strumento ad ancia e oggi, quando anche le proposte più autistiche dei Masahiko Okura sembrano dissanguarsi, nel settore poco rimane da dire di realmente originale. Sarà questo il motivo, ampliare il suo spettro espressivo, che porta Baars ad affiancare un modus operandi che si avvale di svariate tecniche con l`utilizzo di più strumenti, dai più canonici sax tenore e clarinetto al mitico flauto giapponese, che tanti cuori ha spezzato fra gli strumentisti occidentali, shakuhachi (e uno dei titoli, Watazumi Doso, è dedicato proprio ad uno dei massimi maestri di tale strumento). Insomma, ormai rottasi sia la sorpresa dei primi in solo sia la sorpresa di utilizzi poco convenzionali dello strumento, resta solo da affidarsi a un`ottima abilità tecnico-professionale che convince, seppure infonda un po` di noia e lasci un po` d`amaro in bocca a causa dei bei tempi andati.
Situazione in parte riscattata in "Windfall" dalla presenza del contrabbassista tedesco Meinrad Kneer (la mia può sembrare una questione di lana caprina ma fra avere due musicisti invece di uno c`è di mezzo un raddoppio) che amplia considerevolmente il ventaglio delle possibilità . Lo stesso Baars aggiunge al suo set strumentale il noh-kan, altro flauto giapponese in legno ma di tipo traverso, e direi che se già conoscete il musicista olandese, e se vi appassionano queste situazioni del jazz a dialogo stretto e prive di strumenti a percussione, potete tranquillamente farvi sotto.
Fermo restando che “Minimal Damage” rimane una tacca al di sopra. Quindi, dovendo scegliere...
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