Riccardo Dillon Wanke lo ritroviamo al suo disco d'esordio su Sedimental, dopo averlo conosciuto nel collettivo Medves del 2004, insieme a Belfi, Rinaldi, Pilia e Ielasi. Le fonti matrici di questo lavoro impeccabilmente deciso sono chitarra (elettrica e acustica) e sassofono (che compare nell'ultima parte di Jest nelle sembianze di un manufatto inclinato tra disarticolazioni e rimbrottii free-noise). "Caves", sulla carta, potrebbe essere un'estensione della musica neo-psichedelica a carattere riduzionista (David Maranha e Manuel Mota o Rafael Toral) o appartenere ad un revival post-kranky come molta musica esistente negli ultimi anni (Kaijo, Seht) ma per quanto mi riguarda, "Caves" è apparentato più a musicisti come Harold Budd o James Tenney o Phill Niblock che ai neo-minimalisti o neo-riduzionisti dell'ultima ora. Le parentele col etichette quali Cold Blue appartengono allo spirito complessivo del disco, che talvolta naviga dalle parti di "Happy days" di O'Rourke, come nel caso dell'introduzione e qualche altra dalle parti dei dischi in coppia di Richard Youngs. Qualche volta, come in Jest, si sentono delle ventate basinskiane, dei loop assai vicini a quelli della disintegrazione, ed a cui evidentemente rimandano per omaggiare. La traccia che preferisco è l'ultima perchè è forse l'unica posta sull'esterno, e quindi sbocciata, a differenza degli altri quattro movimenti che è come se implodessero senza mai prendere una forma precisa. L'attitudine di "Caves" è solitaria e metapsichica, si basa su semplici contrapposizioni tonali ripetute e scandite da piccoli grappoli di corde pizzicate con oggetti, archetti e dita e nella sostanza italica ricorda molto spesso il lavoro di Stefano Pilia, che a differenza di questo appare più transitivo e meno calcolato. L'atmosfera che potrebbe sembrare quieta, liberatoria e per certi versi zen, non è affatto così rassicurante come sembra (e con quei rintocchi di corde, sembra una campana cimiteriale) nè il disco è così semplice e libero, come si potrebbe credere ad un primo inattento ascolto. Più che improvvisazione tra queste note c'è parecchia composizione, e non si tratta solo di quella composizione scritta su carta, ma di quel tipo di lavoro che implica molta spazialità e parecchia libertà di risonanza e di movimento, così come una certa regolarità nel far uscire dai suoni solo l'aspetto asciutto e necessario, andando in una direzione precisa. C'è memoria e solitudine: più si va avanti e più il disco è attraversato da foschie, nebbie e rumori quasi sussurrati che in brevi pennellate si fanno materia immaginaria e vista trasognata. La copertina del disco ne indica lo spirito: una soggettiva dietro un reticolato: molto spazio, corpi vicini e distanti e mobili o immobili che non si toccano ma che potrebbero benissimo figurare come immagini di un “Music for airports” e dietro, dietro questa barriera, forse ancora più isolato, bloccato, o immobile, il suo autore, che vede e traduce e sapientemente miscela questa desolazione. Tutto sembra intoccabile, e frutto di un effetto greve quanto definitivo. Si tratta di un esordio importante e di un disco importante (e crudele)... il suo autore è da tenere d'occhio e se ne aspettano le prossime mosse.
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