L`azzurro terso e riarso del precedente “Tam-El”, cede il passo all`allungarsi delle ombre.
Magistrale doppia prova.
“Nasprias Cave” e “Utopos” sono, quanto di meglio prodotto attualmente dalle nostre parti (e non solo...), in ambito free/etno/lisergic/folk.
Due vertigini registrate nella (magica vien da supporre...) grotta di Nasprias (fra i vigneti del Marghine), dove, la bruciante lucentezza del progetto Maqom, viene contaminata da umori rituali sinistramente dissonanti.
Un accelerazione, un lasciarsi il sole alle spalle carezzando l`approssimarsi del buio.
Il suo manifestarsi nell`intrico acustico/rituale di “Nasprias Cave” ed il successivo divampare sensuale nella dissonanza/tensione estrema di “Utopos”.
“Nasprias Cave”, (opera dei soli M.S.Miroslaw ed Ersilio Campostorto), è, a tutti gli effetti, un`inesorabile sprofondamento psichico.
Ispirato dalla lettura delle opere di Mircea Eliade (in particolare, “Lo Sciamanesimo E Le Tecniche Dell`Estasi” e “Mefistofele: Il Mito Dell`Androgino”), “Nasprias Cave” è impro/etno/folk radicale, di annichilente bellezza.
Una tamorra muta, fiati, voci, una chitarra acustica, percussioni minimali, un violino, registrazione in presa diretta e livello d`ispirazione impressionante.
Frammenti folk, ritualità , derive etniche mediterranee, storpie e grottescamente sgambettanti, dissonanti accenni free.
La ripetitività acustica sfregiata da libere scosse fiatistiche che agitano lo sfondo di Mater, l`interiore scuotimento, fra ascese Popol Vuh e rincorse di voci salmodianti (circa Virgin Prunes periodo “A New Form Of Beuty”...) di Dominum e Mistycae, la luce ed il suo ultimo sussulto prima del buio di Aere, l`orgia sciamanica residuale che ne consegue, il suo annichilimento finale.
Maqom, è il cristallo tagliavetro, il punto d`incontro fra superamento e tradizione ancestrale.
Il totem, la stele di fattura indefinibile, futuribile ed arcaica al contempo.
In “Utopos”, eseguito da M.S.Miroslaw, Ersilio Campostorto, Andrea Porcu ed Antonov., i venti tesi e dissonanti incontrati in “Nasprias...”; si tramutano in profondo sussulto emotivo.
Quattro frammenti senza titolo che emulsionano performance kraut, ascese free folk, stravolgimenti impro jazz, crudi e primitivi, una sensibilità etnico/rituale (profondamente mediterranea) passata al setaccio post punk/industrial d`inizi ottanta (una jam stralunata fra This Heat, Clock Dva con ancora clarinetto e sax in formazione, Cabaret Voltaire “Three Mantras” e “Red Mecca”) e la sospensione temporale (di nuovo...) dei Popol Vuh.
Un antro umido, gelosamente celato al di sotto della terra rossa riarsa dal sole, un luogo dove ci si imbatte nell`invocazione sfinente del primo brano, nelle derive fiatistico/etno/tribali del secondo (bruciature a pelle, da processione pagana, spalmate d`acido impro jazz, nero come pece).
Stordente.
Un viaggio a ritroso fra arcaici umori mediterranei e dissezioni avanguardiste.
Un elastico teso.
“Utopos” è lo spegnersi della luce, l`affacciarsi oltre il suo bordo, l`osservar la bestia girare in cerchio affamata.
Processioni spossanti in marcia continua.
Circolarità incessante che si connette idealmente al muto cammino evocato dai Godflesh di “Streetcleaner”.
Indefinibili e sfuggenti, Maqom II e Maqom IV, sono l`osservazione del corpo sfinito che tocca con le ginocchia terra, le braccia ancora rivolte al cielo.
Riti propiziatori e corpi ripresi in caduta spossata che continuano ad agitarsi fra la polvere.
Fra la sabbia rabbiosamente sensuale di Jodoroski e l`invocazione finale del colonnello Kurtz.
Questa; signori e signore; è pura magia.
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