Fin dall'inizio, e chiaramente, il percorso artistico di Voice of Seven Woods si scolpiva come popolato da diverse influenze, correnti, metodi,in un andirivieni complesso e sempre incantato sul punto di partenza. Sia dalla prima apparizione sulla scena Rick Tomilson si è pluralizzato in diversi 7", EP, e lavori che, fino a questo momento, potevano definirsi 'forest folk' nell'accezione anche più nobile, e tutti questi lavori sono stati sempre cosparsi di semplicità ed amore puro per la musica. Tuttavia, questo disco, targato 2007 è, semmai, anche il primo vero disco, o almeno, quello che taglia di netto con la produzione assai 'confinante' di Rick. Contattai l'artista alcuni medi addietro, per una cosa che sarebbe poi dovuta confluire in un articolone mai portato a termine. Dalle influenze tangibili mi citò: Gräs och Stenar, Mark Fry, Os Mutantes, Popol Vuh ed Alice Coltrane, e chiaramente, la 'rottura' con i materiali prodotti fin ora, fa sì che emergano influenze più psichedeliche, e meno legate al fingerpicking classico, che comunque, anche in questi lavoro si respira a pieni polmoni. Della sua passione per il folk, sappiamo che la madre di Rick è pianista e che la prima chitarra l'ha impugnata che era un ragazzino; sappiamo anche che la terza lezione di chitarra fu decisiva a fargli lasciare lo studio e che la maggioranza delle accordature non derivano nè da un'intonazione consapevole nè da una vera e propria ricerca sull'accordatura; e questa mancanza di teoria tecnica è un connubio persistente di tutta la scena che più o meno vive attorno all'approccio sonoro di Blackshaw, del cui gruppo, forse è l'unico musicista 'giovane' erede della tradizione di Basho ad avere frequentato degli studi più teorici. In quell'intervista molto informale, Rick mi parlava dei suoi interessi sonori che si muovevano tra Jerry Johansen, Wooden Wand, Hush Arbours Ueno Takashi e Mick Flower e già si sentivano umori di cambiamento ed aggiornamenti drastici. Si tratta, il suo, di un processo creativo assai arzigogolato; concentrato su alcune manciate di ep dall'inesorabile fascino trasversalista come si trattasse di piccoli zoom su certi meandri dell'avant-folk: dalle diramazioni elettroacustiche-psichedeliche dei venti minuti di "The far golden peak one", di chitarra elettrica ed istanze noise, con alcune trovate piuttosto sghembe come il feedback iniziale e l'ultima trionfale marcia di grancassa; all'utilizzazione di strumenti nord-indiani presenti nel 7" "Kfamadaki Yagin - Karanlik Nehir", dove già convivevano in maniera necessaria le spinte del disco che stiamo qui recensendo. Per non parlare di "The journey" dove alcuni echi claptoniani si levavano come gocce d'acqua di una Homeboy dei nostri giorni in un pezzo magistrale come 3am, Home o nella title-track che sembrava uscita da una collisione tra Greg Weeks ed altri tempi sepolti. Ma Rick ha toccato punte di bellezza infinite con "Winter's temper", dove gli arpeggi di chitarra del primo pezzo serpenteggiavano con un Sitar fino alla lunga cavalcata conclusiva. Nei meandri del Nu-Folk, la musica di Voice of Seven Woods ha una conoscibilità unica: lunghi giri di chitarra, che spesso ascendono ed ascendono su scale indiane con incastri armonici e minori; riutilizzazione in chiave modulare di strumenti con risonanze assai allungate (in particolare il Sitar) che spesso prolungano il gioco degli accordi chitarristici; un inedito uso delle percussioni, assai poco usato in questo genere di musica, che o invadono il pezzo nell'esatta metà rinforzandone il gioco psichedelico, o tendono a sdoppiarlo per portarlo su altri meccanismi ritmici; l'uso della voce in un terzo dei pezzi.
Il disco "Voice of seven woods", non a caso, ha il medesimo titolo del moniker; è come se ripartisse da tutti questi elementi e sia i timidi 35 minuti del disco, che forse il primo tentativo di organizzare un filo narrativo all'interno di una musica che ha toccato diversi lidi, ne fanno di questo lavoro la prima differenza singolare. Dusk Cloud si organizza tutta intorno ad una chitarra maestosa e poetica, con un disperato filo di voce da sfondo; Sand & Flames dà sfogo alla nuova psichedelia dell'attuale: una psichedelia che si muove tra correnti ancestrali ed impulsi mediorentali; come gli arpeggi che si ripetono nella cosmica Satai Nova. E la perfezione arriva come una coltellata nell'infinita meraviglia e sconvolgimento di Silver morning branches, un pezzo disperato, struggente ed amoroso, che da solo surclassa su tutto il disco e lancia anche un ponte sulle infinite possibilità che Rick ha dalla sua. Un cantato che ricorda i primi esperimenti pinkfloydiani ed una cavalcata interna fatta di percussioni e chitarra che è tra le più significative che io ricordi. E poi viene certamente l'omaggio a John Fahey, sia perchè Valley of the Rocks stava bene in uno di quei dischi, sia perchè chiarisce a chi non l'avesse capito, che costruire Folk significa anche costruire un linguaggio sorprendente e ricamare con semplicità delle architetture a volte gelide e talvolta attraversate da una prospettiva sempre più inosservabile. Un'altra meraviglia, stavolta hendrixiana viene dai due minuti e qualcosa della folle Under water journey: un vero trip drogatissimo, così chiaramente sezionata e panpottata tra due casse come quella monofonia storica che tutto questo perbenismo sonoro o tutto questo andazzo del 'va bene la prima' hanno fatto dimenticare. Appare un presagio la medesima registrazione: accorta e contemporaneamente spontanea, dove ci capita di sentire l'urto di una mano nella grancassa... e questo linguaggio sorprende dal momento che queste note sono il frutto di un'anima e non di un tasto pigiato nè di un synth autogenerativo in tempi come questi, dove chiunque può registrare dieci dischi l'anno e sentirsi protagonista del proprio dispendio.
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