susie ibarra    di e. g. (no©)




Amore a prima vista. Il primo impatto con i tamburi di Susie Ibarra l`ho avuto ascoltando "The Peach Orchard", doppio CD dal vivo di un quartetto guidato da William Parker pubblicato su AUM Fidelity, e immediatamente sono stato colpito il suo magnifico senso del ritmo che m`ha fatto pensare a maestri del calibro di Max Roach, Ed Blackwell e Milford Graves. Recensendo quel disco scrivevo di un `...caldo gioco percussivo della eccezionale Susie Ibarra (sentite con quale grazia pennella il ricordo di Louis Moholo affidato prevalentemente alle sue bacchette)`....
Col tempo, come spesso accade, quella passione è andata attenuandosi - in questi casi le `responsabilità ` stanno da entrambe le parti - ma rimango convinto delle grandi qualità che ci sono nella Susie Ibarra batterista, pur avendo qualche dubbio rispetto alla Susie Ibarra compositrice. Il tempo cambia le cose, gli stati d`animo e le persone stesse: l`ascoltatore viene intrigato da nuove passioni e il musicista sente il bisogno di cambiare il proprio modo d`esprimersi. Spesso si tratta solo di questo, o magari avrei voluto dalla Ibarra musiche che non fanno parte del suo universo, che sono soltanto nella mia mente, e il mio `sognare ad occhi aperti` mi ha portato ad un progressivo scollamento. Restava comunque la voglia di parlarne, di questo amore, ed ecco che si presenta l`occasione, un po` perchè gli ultimi suoi dischi mi hanno sufficientemente convinto (in un caso addirittura entusiasmato) e un po` perchè una grande passione, seppure in declino, non va comunque dimenticata. Ecco, quindi, che cerco di uscire dai panni dell`innamorato deluso per vestire quelli, cosa assai improbabile, dell`osservatore disinteressato.
Inutile, allora, cercare in lei la selvaggia indole che ha sempre animato i batteristi citati sopra, allo stesso modo in cui sarebbe inutile volerci trovare la carica innovativa di un Sunny Murray o di un Paul Lovens, dal momento che il suo background non è nella tradizione afroamericana, che pure conosce a menadito, bensì nelle sue origini filippine. La batterista si cala nella tradizione jazz portandosi appresso l`amabilità tipica degli orientali, accentuata dalla sua natura femminile, ed è chiaramente tempo sprecato stare lì, nell`attesa di una maleducazione alla Weasel Walter o di un vigore alla Andrew Cyrille.
Eleganza, è questo il termine giusto che ben si adatta al suo modo di suonare. Susie Ibarra sembra nata così, come la vedi sul palco, seduta dietro ai tamburi. Nessun gergo, nessuna scompostezza, al pari di un Fausto Coppi in sella ad una bicicletta, di un Muhammad Ali sul ring o di un Maradona con la palla al piede, tanto che viene da chiedersi se sia nata prima lei o la sua batteria. Avevo compreso, magari in modo irrazionale, questa `grazia` fin dall`inizio, quindi non dovrei sorprendermi se le sue produzioni soliste si presentano guastate da una raffinatezza talvolta eccessiva. Nessuna sorpresa e, con il tempo guaritore, è giunta anche la disposizione ad apprezzare questa leggerezza, ma permangono comunque i dubbi a proposito di una certa freddezza, di un marcato accademismo, soprattutto per quanto riguarda l`aspetto compositivo, che lascia nelle orecchie il retrogusto amaro della lezione ben ripetuta perchè imparata a memoria. Alla grande batterista, quindi, sembra corrispondere la buona - e nulla di più - compositrice.
Forse il futuro farà piazza pulita di questi dubbi, e lo spero, perchè un amore a prima vista non può essere totalmente cancellato... così, di punto in bianco.

Il mio primo approccio con il nome della batterista non era comunque stato casuale, se è vero che s`è fatta le ossa proprio nei gruppi guidati dal contrabbassista nero-americano, oltrechè in quelli del sassofonista ebreo Assif Tsahar (all`epoca suo `husband`).
Inquadriamo ora, per dare un senso logico, quelli che sono i capisaldi della sua produzione discografica. Capisaldi, non capolavori, contenenti le coordinate di una mappa che, ancor oggi, rappresenta i suoi principali modelli espressivi. “Home Cookin`” (Hopscotch - 1998), in duo con Assif Tsahar, è il suo disco d`esordio e uno dei migliori di una discografia ormai piuttosto estesa, ed è un vero peccato che non sia molto conosciuto. Le 17 tracce racchiudono un`alternanza di improvvisazioni registrate dal vivo alla Knitting Factory e di brevi registrazioni casalinghe. Le prime sono duetti sax-batteria, con uno Tsahar che, pur non essendo molto personale, suona passionale e coinvolgente, arrivando a ricordare il grande Albert Ayler (e il suo allievo Peter Brötzmann). Le registrazioni casalinghe sono più introverse e, in linea di massima, rappresentano il primo approccio con alcuni strumenti che in quel momento stavano entrando a comporre il bagaglio dei due musicisti: thumb piano, balafon, talking drum, kulintang, djembe, toy gamelan, clay whistle, bamboo recorder.... Il drumming è fluido e convincente, danzante e giocoso, senza inutili esercizi di stile, ma preciso e attento nel costruire al compagno una base che va ben oltre l`accompagnamento ritmico, fino ad essere componente paritaria di un serrato dialogo a due. Questa situazione di tipo tipicamente improvvisativo, che la esonera da ogni responsabilità organizzativa e/o compositiva, è quella più appropriata per l`estro della batterista, e proprio nella scarna formula del tªte-à -tªte la Ibarra saprà prodursi in alcune delle sue prove più convincenti.
L`anno successivo esce “Radiance”, ancora su Hopscotch, attribuito al Susie Ibarra Trio e con Tsahar `legittimo` produttore. Si tratta, quindi, del primo disco realmente `suo` e inaugura una formula triangolare, percussioni - piano - violino, che continua ad essere ancor oggi la sua preferita. Si tratta di una formula che invita a riscoprire lo storico gruppo formato da Leroy Jenkins (con Anthony Davis e Andrew Cyrille), del quale ripropone la struttura senza peraltro eguagliarne la tensione. Questa prima incarnazione del trio è completata da Charles Burnham e Cooper-Moore. “Radiance” è il primo esempio, perfetto in tal senso, di quella leggerezza che accompagnerà la batterista in quasi tutti i suoi progetti. Si tratta di una musica che, come la pietra ovale delle copertina, sembra stare sospesa in aria. Fra i brani ci sono una bella versione della Up From The Skies di Jimi Hendrix, con Cooper-Moore impegnato ad uno strumento di sua invenzione detto diddley-bo, e una manciata di composizioni originali nelle quali la Ibarra mostra un`inventiva tutt`altro che trascendentale. Il disco finisce comunque per farsi apprezzare in virtù della grazia e dell`asciutta poetica che lo animano. La musica è piacente, sia nei momenti più free che in pagine più meditabonde come Blessing, Arboles e Maganandang Araw, ma raggiunge il punto più entusiasmante quando la danza dei tamburi si leva festosa a tessere le maglie di una trama ritmica accattivante, eppure esente dal peccato dell`indulgenza (Dreams). Quando la batterista si lancia in queste cavalcate danzanti, così tipicamente sue, riesce addirittura a far dimenticare la cognizione del tempo.
“Flower After Flower” (2000), seppure solo parzialmente riuscito, è il suo disco più importante. E` importante perchè inaugura il rapporto con la Tzadik e perchè rappresenta uno spartiacque fra due periodi ben distinti della sua avventura musicale, ma anche perchè è la dimostrazione che il suo nome inizia a funzionare come catalizzatore in grado di raccogliere le (e aggregarsi alle) collaborazioni più disparate. Si tratta di un punto d`arrivo e di partenza allo stesso tempo: è il risultato di tutta un`attività trascorsa e, contemporaneamente, funziona come detonatore per numerosi eventi futuri. Il disco viene collocato dall`etichetta nella collana dei compositori, giustamente, ed è proprio sotto l`aspetto compositivo che non riesce a convincere. Le composizioni peccano per formalismo, non hanno brio e si respira in esse una certa aria di artefazione. E` un disco che non decolla, nonostante il coinvolgimento, accanto ai componenti del trio e all`onnipresente consorte, di musicisti blasonati come Leo Smith, Chris Speed, John Lindberg e Pauline Oliveros. Per i vecchi amici, comunque, l`ora del distacco è suonata: entro breve termine il trio viene completamente rinnovato e con Tsahar è prossima una separazione artistica che coinvolgerà anche il campo affettivo (e/o viceversa). Il CD si divide in due tipi di scritture (che si alternano fra se): quattro `frattali` per strumento solista e quattro composizioni di jazz da camera. I frattali, affidati alla fisarmonica della Oliveros, al piano di Cooper-Moore ed alla batteria della stessa Ibarra, hanno ben poca consistenza. Più interessanti le composizioni che, nonostante si perdano spesso in meandri senza via d`uscita, mostrano comunque alcuni momenti piuttosto suggestivi con impasti strumentali davvero ben riusciti, discorso che vale soprattutto per The Ancients e Human Beginnings. Nell`ultimo titolo, in particolare, è possibile ritrovare anche la strumentista che ammalia. Con `Flower...` la Ibarra rivela un`attitudine bucolica ed una passione per le arti ornamentali orientali, espresse attraverso l`utilizzo del disegno di Heung-Heung Chin per la copertina, e un attaccamento alle tradizioni familiari - o del clan - tipico della cultura filippina (vi dice nulla un titolo come The Anciens?).

Torniamo ora un passo indietro e riprendiamo la sequenza dei duetti, idealmente iniziata con “Home Cookin`”, ma che, nel biennio 1998-1999, si è arricchita di altre due superbe registrazioni: un duo di percussioni con Dennis Charles (vecchio compagno di Cecil Taylor) ed uno splendido confronto con la chitarra di Derek Bailey. Entrambi i lavori sono estremamente importanti:
“Drum Talk” (Wobbly Rail) perchè mette a confronto due musicisti appartenenti ad una generazione diversa e perchè prosegue la grande tradizione della musica per percussioni, relativamente al jazz afroamericano;
“Daedal” (Incus) perchè avvicina la batterista alla tradizione improvvisativa europea che, pur avendo un comun denominatore jazzistico, si distingue da quella d`oltreoceano per una maggiore libertà nelle forme e per un approccio diverso nei confronti del ritmo, dello strumento e della ricerca timbrica. Quella con Bailey è certamente la sua esperienza più difficile e rischiosa, eppure viene superata brillantemente da una strumentista alla quale non mancano certo il coraggio, la grinta e la determinazione.
La Incus replicherà , tre anni dopo, con un altro match registrato dal vivo in Norvegia e colpevole soltanto di essere arrivato come secondogenito (“BIDS”)... e il primogenito è notoriamente più benvoluto. Il disco è forse ancor più bello dell`altro e dimostra che l`incontro è in grado di superare anche la prova del palco.
La risposta della Wobbly Rail, che opta con più convinzione per una soluzione nuova, arriva nel 2003 e conferma l`ottima predisposizione della musicista nei confronti di questo tipo di situazioni. “Tone Time” mette a confronto i suoi tamburi con il contrabbasso dell`ottimo Mark Dresser, in una combinazione inedita per i due e non molto frequente nell`ambito delle musiche improvvisate. Si tratta di un contesto meno problematico ma altrettanto riuscito. A onor del vero la collaborazione con Dresser non è nuova di zecca, se già nel 1999 li troviamo entrambi in un quartetto comprendente anche Joe Morris e Eugene Chadbourne (una curiosità riguarda i brani del disco, "Pain Pen" pubblicato dalla giapponese Avant, in quanto tutti e dieci hanno per titolo un anagramma del nome Pauline Oliveros).
Il mondo è piccolo, la vita è relativamente lunga e gli scambi fra gli improvvisatori sono sempre più numerosi, ed è in questo tipo di logica che potrebbero arrivare, in futuro, le sorprese più piacevoli da parte della batterista. Pensate che spettacolo potrebbe venir fuori da un confronto con Keiji Haino, per esempio, oppure con Olaf Rupp o Taku Sugimoto, tanto per rimanere in ambito di strumenti a corda, tutti confronti che, vista la sua duttilità , sarebbe sicuramente in grado di sostenere con risultati più che proficui. Speriamo soltanto che la musa della curiosità non l`abbandoni.

Il trio, la sua formazione di stampo jazzistico, subisce un rinnovamento subito dopo l`inizio del nuovo millennio; rinnovamento che riguarda le persone fisiche e non la formula saldamente ancorata al triangolo batteria - violino - pianoforte. Al pianoforte Craig Taborn subentra a Cooper-Moore: si tratta di un musicista più attento alle nuove tendenze che ha già all`attivo alcuni dischi, piuttosto ben accolti, nei quali la tradizione del piano jazz va a confondersi con le moderne tendenze dell`elettronica di marca afro-americana. Al violino Charles Burnham è sostituito da Jennifer Choi, una virtuosa la cui impostazione non ha certo radici jazz. La sostanza del trio, al di là dell`eclatante dettaglio che vede capovolgersi il rapporto uomo-donna , è modificata dall`uso dell`elettronica apportato da Taborn e dalla presenza apolide della Choi. Se sulla carta c`è da aspettarsi grandi cose, la pratica è di tutt`altro avviso e l`ibrido che ne esce fuori non arriva mai a convincere pienamente. Il virtuosismo della Choi, a tratti veramente eccessivo, drammatizza e appesantisce la naturale leggerezza ed effervescenza intrinseche al mood della batterista e le invenzioni di Taborn non riescono ad entrare nel vivo di strutture costruite con troppa rigidità .
“Songbird Suite” (Tzadik, 2002), disco d`esordio del nuovo trio, offre un esempio lampante di quanto detto nel brano che lo intitola e che dovrebbe rappresentare il piatto forte della scaletta. I field recordings che vengono utilizzati restano depositati nello sfondo, semplice tappeto o abbellimento, e non giungono mai a interagire con la struttura portante del brano... di tutt`altra pasta era fatto il Concerto For Active Frogs di Anne LeBaron che si avvaleva degli stessi principi. In tre brani del disco è presente anche Ikue Mori, con contributi insignificanti, ma la sua presenza è importante perchè l`ex DNA e la batterista andranno a formare di lì a poco, insieme alla pianista Sylvie Courvoisier, quelle Mephista di cui diremo più avanti.
“Folkloriko” (Tzadik, 2004), pur non essendo propriamente e interamente attribuibile al Trio, è la naturale prosecuzione di “Songbird Suite” e, al momento, è anche il lavoro più ambizioso della Ibarra che in Anitos, duetto con il suo nuovo `husband` Roberto Rodriguez (percussionista di origini cubane), offre il suo miglior excursus nel terreno delle poliritmie (sembra che i due abbiano pronto un intero lavoro che potrebbe uscire su Tzadik). E` però nella suite Lakbay, con i suoi spettacolari rallentamenti e accelerazioni e con gli altrettanto spettacolari cambi di ritmo e d`umore, che va misurata la reale temperatura del disco. Si tratta di una scrittura per il Trio che intende rappresentare una giornata nella vita di un lavoratore immigrato dalle Filippine, quindi si tratta ancora di un tributo alla sua terra d`origine e alla sua stessa famiglia. La suite si divide in nove parti e, in tre di esse, al trio si aggiunge la tromba ormai familiare di Wadada Leo Smith. Il brano migliora notevolmente il tenore di alcune scritture precedenti ed è indubbiamente ben orchestrato, seppure rimangano dubbi sulla freddezza intrinseca ad alcuni passaggi e sulla tendenza ad estetizzare che, a volte, finisce per essere irritante. Come, per esempio, quando vengono nuovamente utilizzate delle registrazioni ambientali con lo scopo superfluo di abbellire, e senza che queste aggiungano nulla di consistente ed utile all`economia del brano.

E` già stato detto dell`importanza di “Flower After Flower”, e quasi in contemporanea con esso la batterista è protagonista di un`importante collaborazione che catapulta il suo nome all`esterno dell`ambito ristretto che l`aveva vista fino ad allora protagonista. Sto parlando della presenza in due brani di “And Then Nothing Turned Itself Inside-Out” dei Yo La Tengo. Il disco è sinuosamente mellifluo e soffre di una eccessiva patinatura, ma funziona bene e il nome della Ibarra ne acquista sicuramente in popolarità . Molto meglio è il mini CD “Nuclear War”, uscito due anni dopo, nel quale il gruppo guidato da Ira Kaplan è impegnato nella rilettura del classico brano di Sun Ra; però, in questo caso, il contributo della batterista si perde in una pletora di ospiti e non viene utilizzato nella traccia migliore del disco. Comunque, da questo momento in poi, le collaborazioni si moltiplicano tanto da rendere vano ogni tentativo di rincorsa. Il clou viene certamente raggiunto il 22 Settembre del 2003 quando, in occasione del 50° compleanno di John Zorn, sale sul palco del Tonic di New York in compagnia del festeggiato e di Leo Smith. L`ottavo volume della serie pubblicata dalla Tzadik per celebrare quell`evento, un mese di concerti con un numero inelencabile di partecipanti, ci racconta adesso (freschissimo di stampa) quella serata. Nei primi cinque brani del CD Zorn e la Ibarra duettano in libertà (situazione non nuova, dacchè in un una compilation della AUM Fidelity, "Vision One - Vision Festival 1997 Compiled", esiste un brano che li fissa in tandem già nel 1997), e fa piacere constatare come la batterista non perda una battuta nei confronti di uno Zorn che, vista l`età , comprende l`inutilità del risparmio e sciorina tutta la sua scienza: dai `game pieces` alle messe ebraiche. Dopo un lunga improvvisazione in cui il sax alto di Zorn si confronta con la tromba di `Wadada`, arriva infine l`incandescente apogeo con i rappresentanti di ben tre generazioni impegnati a contendersi il palco.
Limitandoci ai dischi che la vedono protagonista, e non semplice gregaria od ospite, è fondamentale notare come la maggior parte di questi progetti abbiano una fisionomia tutta al femminile. “Passaggio” (Intakt), uscito nel 2002 ma registrato nel 2001, è opera di un trio piuttosto classico con la pianista Sylvie Courvoisier e la contrabbassista Joëlle Léandre, ed è ben definito dal titolo. Il disco, seppur dominato dalla prepotente personalità della contrabbassista, mostra una notevole maturità pure nelle altre due protagoniste che, di lì a breve, si ritroveranno nell`altro ensemble tutto al femminile Mephista. I brani si dividono in nove improvvisazioni collettive e tre duetti incrociati nei quali, e non so come leggere questo particolare, le tre muse danno il meglio di se.
Più interessante è il progetto New Circle Five, se non altro perchè le cinque protagoniste hanno un background molto più diversificato. Il progetto risale ai primi contatti avuti dalla batterista con Pauline Oliveros alla fine degli anni Novanta, ma giunge al debutto discografico solo nel 2003 con l`ottimo “Dreaming Wide Awake” (Deep Listening) che raccoglie registrazioni avvenute alla fine dell`anno precedente. Le protagoniste, oltre alla Ibarra e alla Oliveros, sono Monique Buzzartè (trombone, didjeridu e conchiglie), Rosi Hertlein (violino e voce) e Kristin Norderval (voce soprano). Il piacere dell`ascolto, se riuscite a superare lo scoglio rappresentato dalla voce operistica della Norderval, è garantito da una copiosa varietà di intrecci e di soluzioni.
Due dischi su Tzadik rappresentano la produzione di un trio dall`aspetto molto più innovativo di quanto, in un primo momento, saprà dimostrarsi nei fatti. Il trio si chiama Mephista, rivendicazione di una femminilità demoniaca e/o di una diabolicità femminile, e le componenti sono (come osservato fra le righe in precedenza): Ikue Mori, Sylvie Courvoisier e, naturalmente, Susie Ibarra. L`esordio dell`ensemble - “Black Narcissus” (Tzadik, 2003) - è un disco troppo fragile. L`idea forte evocata dal nome del gruppo, dal dipinto di Salvador DalÖ utilizzato in copertina (che rimanda direttamente al surrealismo) e dal titolo del disco è stemperata in atteggiamenti strumentali troppo classicisti, e in definitiva si tratta di una tigre che non morde e finisce per essere patetica e noiosa. Peccato, perchè l`aspetto e le idee sembrerebbero davvero aggressive. Mephista, in questa fase, è come un essere in cui cuore, arti superiori e arti inferiori agiscono ognuno per proprio conto, senza seguire quanto viene loro dettato dal cervello.
La musica cambia con “Entomological Reflections” (Tzadik, 2004), un disco dalle tinte forti in cui le tre musiciste frantumano la materia sonora e assemblano i frammenti più disparati allo stesso tempo: i suoni dello stile jungle ellingtoniano, della fourth-world music, del mego-pensiero, del death-ambient, delle free-forms... primitivismo e futurismo... sole e luna... età della pietra e meccanizzazione... il tutto racchiuso in 15 fantastici brani. Un almanacco di storia(e) rivista e corretta. Cervello e cuore all`unisono. Il battito sul tamburo che si incastra alla perfezione fra l`arpeggio sulla corda e lo spippolamento elettronico. Fra una pietra e l`altra di questo edificio, come nelle mura a secco degli Incas, non penetra un capello.
Forse la batterista sta faticosamente trovando la propria dimensione.


- Le foto 'virate', riprese il 4 Novembre 2004 alla Sala Vanni di Firenze durante il concerto del Susie Ibarra Trio, sono di Luca Buti




- Le foto in b/n sono tratte dai dischi e dal sito della musicista.




- Una discografia completa, ma non sempre aggiornata, della batterista è disponibile su www.velocity.net/~bb10k/IBARRA.disc.html




- Numerose foto riprese durante vari concerti possono essere visionate su www.downtownmusic.net/pictures/picturesrhtml/Susie_Ibarra


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