the Dead C    
di francesco vitale





«Music's primarily instrumental, human beings actually play music in a room together and you record it. I can't see why, in order to make an audible record of that, you would want to have the human beings do their bits separately and then patch them together to make a representation of what it might have sounded like if they'd all been playing together in a room at the same time. I profoundly find that a weird way to go... The sound that people make together in a room playing, to me that's what recording ought to be about.» (Bruce Russell)

Sembra di essere di fronte a una di quelle critiche mosse dal purismo esasperato di fine anni '60, che i jazzmen della vecchia e nuova scuola indistintamente, muovevano al nuovo corso di Miles Davis, così profondamente avviluppato attorno al certosino ed infaticabile lavoro di taglia e cuci promosso da Teo Macero. Un lavoro questo che ha consegnato alcune tra le registrazioni più visionarie del trombettista di St. Louis. Certo non si trattava ancora di multitraccia vero e proprio, ma il discorso è pressochè identico: registri le sessions in più sedute, magari lunghe estenuanti improvvisazioni attorno a un tema, poi le tagli le rimonti, fade-in, fade-out... Beh volendo estremizzare. Che poi il rock si sia nutrito in prima persona di un approccio raw alle registrazioni, possibilmente live in studio, non è certo cosa nuova. Penso a un disco su tutti e mi viene in mente "Funhouse" degli Stooges come esempio emblematico.
La questione non è puramente etica e non attiene al solo 'fregare' l'ascoltatore. D'altronde i dischi registrati in multitraccia sono ormai la totalità delle nuove produzioni non afferenti alla scena jazz-improv, e nessuno si sognerebbe mai di questionare sul fatto che il nuovo disco dei dEUS, degli Ulan Bator o di Tom Waits sia stato registrato con questa tecnica. Ormai appartiene al novero delle strategie possibili e risulta anche tra le più convenienti in termini economici e pratici.
La radice della parole di Bruce Russell è da ricercarsi piuttosto in una sorta di primigenia autenticità da garantire all'ascoltatore, bollino di qualità , certificazione della serie «ehi guarda, quello che senti è rock live in studio, l'ho suonato tutto d'un fiato, non ti voglio fregare».
Partiamo allora alla ri-scoperta di quello che è un culto sonoro di Thurston Moore, nato a latitudini rock anomale, quelle della Nuova Zelanda. Una terra che oltre a essere stata brutalmente rimodellata dalla mano dell'uomo, ci ha donato le magie della palla ovale a firma All Blacks, ma anche una nutrita schiera di gruppi intemperanti, tutti passati sotto l'egida della Flying Nun records o delle etichette consorelle nate da quella esperienza come la Failsafe Records e la Xpressway (etichetta gestita da Bruce Russell). Proprio quest'ultima pubblicherà nell'arco di 23 uscite totali (rigorosamente su cassetta fatta eccezione per alcuni 7") i primi lavori dei Dead C, vicini alla classica forma canzone. Il gruppo è composto da Bruce Russell (chitarra, basso), Michael Morley (chitarra, voce e laptop in tempi più recenti) e Robbie Yeats (batteria). I suoni del rock indipendente neo-zelandese risentono in egual misura dell'estetica DIY americana, improntata al lo-fi emozionale, e del rock affogato nei feedback dei Velvet Underground di White Light/White Heat; alcuni come i Gordons produrranno pezzi noise-rock dalla grande carica. Chi si spinge più in là come i Dead C va ad impattare anche contro la scuola impro britannica dell' AMM e al loro miscuglio di forme anti-classiche e free-jazz (non a caso un brano da "Future Artists" prende il nome di The AMM of Punk Rock). Altra nota che gli storici della musica neozelandese citano come causale per l'evoluzione di un sound così singolare, stà nella scadente fattura degli strumenti musicali utilizzati. Un po' come successo per il blues e il jazz africano riportato in auge dalle Ethiopiques.
Future_Artists Nonostante questa apertura concettuale al mondo e ai modi della musica, i Dead C rimarranno fisicamente sempre confinati all'interno dei confini neo-zelandesi, regalando alla platea internazionale solo alcune fugaci apparizioni (come quelle degli All Tomorrow Parties 2002, 2004 e 2006). Anche le apparizioni domestiche del gruppo si sono fatte più sporadiche col passare del tempo, ma il lavoro in studio è proseguito incessantemente. Questa immagine pubblica molto riservata, trova comunque riscontro in un nutrito fan base, che si sviluppa principalmente all'estero grazie al passaparola degli appassionati e al chiacchiericcio che si fa della band nel mondo della fanzines. Più di recente anche il Melody Maker ha speso parole di grandezza per il combo neozelandese, additandolo insieme ai giapponesi Fushitsusha (il gruppo rock di Keiji Haino) come la migliore band rock del pianeta. Questa asserzione è lontana dalle solite sparate della stampa inglese, e a testimoniarlo c'è tutta una pletora di gruppi fondamentali che indicano i Dead C come influenza musicale chiave: si va dai droni dei Bardo Pond zuppi di acido lisergico, ai neo-psichedelismi di quel gran gruppo che furono i Labradford; ma anche il lo-fi enciclopedico dei Sebadoh, quello più pop dei Pavement e il lavoro chitarristico di un gruppo come i Flying Saucer Attack pagano dazio alle registrazioni dei nostri.
Le numerose produzioni del gruppo sono spalmate nel catalogo di varie etichette, e ad ognuna di queste corrisponde più o meno un differente approccio musicale.
Ho pensato dunque che per parlare della musica del gruppo sia giusto pescare qualche capitolo per ognuna di queste fasi che il gruppo ha attraversato nel corso della sua sterminata discografia. Non c'è dunque pretesa di completezza e reputo la scelta dei dischi piuttosto soggettiva. Consideratela come un semplice punto di partenza.



Album e singoli

"Eusa Kills" (1990): questo è un disco incredibilmente pop, ed è l'unico lp pubblicato dalla Flying Nun Records. Non troverete cose così sfacciatamente simili a una canzone negli album che seguiranno. Scarey Nest è una canzone più grunge che noise. Ma le assonanze con la scena di Seattle si fermano lì. Si sente qualche clangore in odore di post-punk come in Alien to be, ma la cifra del gruppo rimane sempre più depressurizzata rispetto a quelle sonorità , meno tesa e tirata. Le atmosfere non sono ancora sature come quelle dei dischi di metà anni '90, la voce ha ancora un ruolo preponderante e principalmente si tratta di liriche ermetiche all'inverosimile. Le chitarre inseguono una sorta di minimalismo stridente, quasi fossero i Pil più astratti. Resta, tra gli album 'rock' dei Dead C, la strada d'accesso preferibile per chi vuole avvicinarsi al lavoro del trio.

"Vs. Sebadoh" [Singolo] (1993): Singolare questo non-singolo contente 7 brani per un totale di 11 minuti scarsi di musica. Primo perchè del gruppo di Lou Barlow non c'è traccia se non nel titolo. Secondo perchè a pubblicarlo è l'americana Siltbreeze, etichetta che nel 1991 curò la pubblicazione di "Oven is My Friend" dei Sebadoh prima che questi si accasassero presso più blasonate etichette. Terzo, si inserisce in un filone inaugurato proprio dai Sebadoh che l'anno prima pubblicano "Sebadoh vs. Helmet", un altro non-split che chiama in causa il gruppo thrash-core del batterista John Stanier solo nel titolo. Nella speranza di avervi abbastanza incasinato le idee, aggiungo che i Dead C così compressi, con canzoni attorno al minuto, suonano come se volessero tentare per scherzo la strada al successo indie dei Sebadoh. La musica in realtà è una sorta di rilettura dell'hardcore degli Husker Dü di "Metal Circus" ma nell'ottica sfibrante del gruppo neozelandese, infarcita di urla soffocate e chitarre sferraglianti. Di fatto è la conclusiva Air a riconsegnarci i Dead C sperimentali, in grado di disegnare attorno a un groove robusto di batteria, muggiti di feedback che si inseguono.

The_Dead_C "Clyma Est Mort" (1993): la copertina di questo live richiama le scarabocchiatture dei lavori dei The Fall (e in un certo senso il paragone può estendersi anche ad altre cover nella discografia del gruppo di Bruce Russell). La scelta dei brani ne fa un ottimo compendio della prima produzione del gruppo, presentando brani tra i più famosi, come l'epilettico garage rock di Sky, scandito dai feedback della chitarra di Russell, o il salmodiante down tempo di Electric, dissonante, dalla ritmica scheletrica, mantenuto in piedi dai rintocchi esausti del rullante. Il droning profondo di Das Fruten, Das Fluten, introduce quello che è il capitolo più smaccatamente impro del lotto: una slide guitar che ricorda qualcosa dei Gun Club più slabbrati fa capolino tra le pieghe del suono, nel frattempo fischi e sibili disegnano l'aria attorno. La batteria pare a più riprese caracollare verso il versante kraut della musica per poi zittirsi. Il lirismo esasperato di Power mostra chiari, se ancora ce ne fosse bisogno, i segni di una scarnificazione operata sul cadavere del blues, recuperato nelle sue movenze più malate e sovversive.

"The White House" (1995): del periodo con la Siltbreeze molti preferiscono "Harsh 70s Reality", che in effetti resta uno tra i migliori lavori della band. Il fatto è che tutti i dischi pubblicati per la SB, tra cui "The White House", il live "Clyma Est Mort" e "Trapdoor Fucking Exit", costituiscono la base di partenza per comprendere la concezione del rumore che è il centro della musica del gruppo. Preferisco "The White House" per la presenza di due tra le composizioni del gruppo che personalmente ritengo più significative: l'epica sfibrante di Outside, posta in chiusura di disco, suona a suo modo come la chiave d'accesso al mondo del post-rock via altre angolazioni, con la chitarra ritmica sommersa dalle scariche elettriche della chitarra di Russell; The New Snow è l'altra composizione importante di questo album ed apre il disco: in mezzo al solito maelstrom abrasivo di chitarre distorte fa la sua comparsa un lead melodico di carillion spaziale che esce ed entra dal mix del pezzo, confondendosi dietro gli altri suoni e poi riemergendo dal nulla. La musica dei Dead C suona molto più straniante e psichedelica di quanto non sembri ad un primo ascolto: una volta rotta la superficie si penetra in un mondo composto da frequenze che operano a diversi livelli di profondità , creando delle vere e proprie composizioni sovrapposte.

"The Dead C" (2000): uno di quei casi che fa felici i compilatori di stravaganti liste musicali: un album omonimo che non è un album di debutto, e che si colloca addirittura dalle parti della 15esima posizione, se si considera la discografia in ordine cronologico. L'album in questione, un elefantico doppio cd, rende giustizia al nome del gruppo, sprofondando l'ascoltatore verso il centro della terra. Il rituale di Speeder Bot atterisce già solo per via del minutaggio esagerato (33:06) e risulta praticamente in un album a se stante. I pezzi contenuti in questo lavoro, il primo per la Language Recordings, segnano di fatto un cambio di direzione netta: abbandonata la Siltbreeze, i Dead C iniziano a scrostarsi di dosso l'aura conservatrice che li aveva tenuti lontano dalle frequentazioni con apparecchi elettronici per tutta la prima parte della loro carriera. Vortici di loop e un pesante lavoro sul materiale registrato in studio approcciato con le tecniche della musica concreta: queste sono le nuove strade percorse per scolpire quella che resta una ricerca artistica estremamente affascinante. Gli odori psichedelici e le aperture visionarie diventano il nuovo fulcro caleidoscopico da cui origina la musica dei Dead C. Un lavoro sicuramente ostico e da assumere in dosi moderate, che reca in sè un fascino unico.

"The Dead C / Hi-God People" - Split (2007): i Dead C del 2007 sono un'entità bifronte: da un lato quelli dell'album in studio "Future Artists", che di fatto nulla aggiungono al discorso di dissonante improvvisazione maturata ormai nel corso del tempo e che anzi tornano ad un uso più 'rock' dei propri strumenti, e dall'altro quelli presenti in questo split. Anche in questo caso è evidente un approccio più rock al flusso sonoro, ma va inteso come più 'classicamente rock', ovvero fatto di pattern di batteria (il funk di LA Confidential), di jam infuocate, di quasi-assoli strumentali (quello di LA Blues). Il tutto spartito tra 2 composizioni di nove minuti e mezzo ciascuna che si richiamano nei titoli alla cità californiana e a due opere di cui di fatto plagiano il titolo: il blues malato degli Stooges e il romanzo noir di James Ellroy.


Compilation

"Vain, Erudite And Stupid: Selected Works 1987-2005" (2006): questa è probabilmente la strada meno accidentata per avvicinarsi al gruppo, una doppia compilation che raccoglie alcuni tra i pezzi migliori del trio (pur tralasciandone almeno altrettanti ugualmente meritevoli), selezionata direttamente dai membri dei Dead C e ampiamente documentata. Si trovano infatti nel corposo booklet, esaustive descrizioni delle sessions di registrazione, dell'hardware e degli strumenti utilizzati. Personalmente non adoro le compilation, ma in questo caso il prodotto è ben al di sopra la media del formato, e rappresenta effettivamente un buono spettro delle potenzialità dei Dead C.



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