corde d'oriente    di e. g. (no ©)




Brian_Jones
Inizio con il correggere il tiro rispetto al titolo che ho scelto per quest`articolo cavillando su un autentico paradosso, perchè la realtà geografica vuole che per un abitante di San Francisco siamo noi l`oriente e il Giappone è l`occidente... e quindi, invece di un categorico `Oriente`, sarebbe più esatto dire `il nostro oriente`. Cosicché, riletto, il titolo che ho scelto sarebbe `corde del nostro oriente`; che sono molte, infinite direi, perchè il nostro oriente comprende buona parte dell`Africa, buona parte dell`Europa, l`Asia e l`Oceania... e quasi ogni nazione di questa immensità ha il suo, quando non i suoi, strumento a corde. Ma non è nelle mie intenzioni tracciare un`enciclopedia, che pure sarebbe utile, quanto piuttosto indagare quel piccolo gruppo di strumenti, e strumentisti, che hanno saputo uscire da una logica essenzialmente folcloristica, e quindi tradizionale, per evolversi fino ad imbastardire il loro mood con influenze, penetrate o richiamate, estrinseche alla loro cultura. E, fra questi, è mio scopo analizzare soprattutto quei musicisti che hanno rappresentato un`influenza, o hanno subito l`influenza, sulle/delle musiche che noi ascoltiamo, ma anche sulla nostra realtà culturale di `occidentali`. Questo è quindi un viaggio in direzione del `sole nascente`, sulla scia dei vecchi mercanti, alla ricerca delle nostre radici o, quanto meno, di radici altrui che oggi sono penetrate nel nostro lessico quotidiano. Come potete comprendere la cerchia si può restringere ad una manciata di `splendidi` esemplari. Però si tratta di un`influenza radicata e infiltrata dove meno ve lo aspettereste: quelli di voi che acquistano, e di conseguenza collezionano, il mensile inglese “The Wire”, ricerchino il #259 del Settembre 2005 e a pagina 27, nel corpo di un articolo su Ralf Wehowsky, troveranno una foto scattata in quello che si presuppone essere lo studio di quest`ultimo... La parete è occupata da una scaffalatura piena zeppa di vinili e, appoggiati a terra, ci sono due strumenti a corda: un sitar ed un oud (va detto che il fotografo ha voluto esagerare sciupando una foto perfetta con alcune cartacce appallottolate gettate lì a mala arte). Chi avrebbe mai scommesso che l`ex P16.D4 era in possesso di quegli strumenti?
Quelli che trattiamo in questo articolo sono strumenti antichi, a volte semplicemente scolpiti nel legno (tonkori) e altre frutto di una più elaborata lavorazione (oud), e comunque sempre al`ordine del giorno per sonorità e potenzialità d`uso.
Alcuni di questi strumenti, attraverso gli strumentisti che andremo a trattare, hanno rappresentato un influenza su molti ambienti musicali occidentali, dal rock al jazz, e mi riferisco in particolare al sitar ed all`oud. Altri sono semplicemente entrati a far parte del nostro lessico musicale. Interessante, infine, il caso del tonkori che Oki ha modernizzato per approccio e sonorità , dando una svolta alla musica tradizionale degli Ainu e portandola sulle prime pagine delle riviste musicali (ben oltre il semplice interesse destato dalle musiche etniche).



L`oud o liuto arabo, lo potete trovare scritto anche in altri modi: `ûd, al`ud, eoud..., sta letteralmente a significare `pezzo do legno`. La sua invenzione risale agli albori della civiltà araba, circa Ottocento-Novecento, e fu tramite l`espansione degli arabi che raggiunse l`Europa dando discendenza ai nostri liuti (oud-> eoud-> leud-> liuto) e chitarre. Lo strumento, estremamente raffinato, derivava da forme più arcaiche che si pensa siano antenate di tutti i liuti orientali (pipa, sitar, shamisen...). Inizialmente era composto da quattro coppie di corde, alle quali è stata in seguito aggiunta una singola quinta corda bassa. Oggi si possono distinguere tre tipi principali di oud (che si differenziano per tonalità , accordatura e grandezza): irakeno, turco e magrebino (o arabo). Se pure la sua presenza nella musica occidentale degli ultimi 50 anni sia stata abbastanza discreta, per esempio rispetto a quella del sitar, ha avuto comunque un sufficiente utilizzo. Il lettore farebbe bene a mettere le mani sui dischi dei Kaleidoscope (in particolare su “A Beacon From Mars”), un gruppo californiano che alla fine degli anni Sessanta miscelava psichedelia, folk, jazz ed altro. Il gruppo utilizzava anche numerosi strumenti esotici fra i quali l`oud che, solitamente, veniva suonato dal musicista di origini turche Solomon Feldthouse. Maggiore espansione nell`utilizzo di questo liuto c`è stata in tempi recenti con l`esplosione in larga scala nel recupero di musiche mediterranee (ad iniziare dal Fabrizio De Andrè di “Creuza De Ma”) e anche da parte di alcuni gruppi klezmer. Oltre, naturalmente, ai più interessanti dischi della Incredibile String Band. I più importante suonatori d`oud contemporanei sono stati il nubiano Hamza El Din e l`irakeno Munir Bashir (lo potete trovare scritto anche Bachir o Bechir).

Hamza El Din, nato nel 1929, ha vissuto a lungo negli Stati Uniti, dove è morto il 22 Maggio 2006 (a Berkeley) e dove si fece conoscere attraverso il festival di Newport e ben due dischi pubblicati sulla storica casa discografica Vanguard. Grande improvvisatore, la sua musica è uno stimolante incrocio fra la musica araba e le tradizioni africane, ebbe sicuramente una notevole influenza sugli ambienti del rock (soprattutto sulla nascente psichedelia: Grateful Dead, Quicksilver Messenger Service...), ma anche nel jazz e nel folk con tendenze progressive. Sandy Bull, che era suo amico, mise a punto queste influenze nei suoi primi dischi per la Vaguard, dove ottimi brani erano però vanificati da pasticciate interpretazioni di composizioni riprese dalla tradizione classica, in un interessante miscela di folk progressive. I contatti con il mondo del jazz sono invece dimostrati dalle collaborazioni con il contrabbassista Ahmed Abdul Malik (che a fine anni `50 aveva fatto parte dei gruppi di Thelonious Monk): è certo che Coltrane utilizzò l`oud, suonato proprio da Abdul Malik, in alcune formazioni di inizio anni `60. Più in generale la musica araba del Nord Africa ebbe una grande influenza nell`epopea della New Thing, influenza che nel 1969 culminò nella partecipazione di molti musicisti afroamericani al Festival Pan Africano di Algeri.
Nel 1971 Hamza El Din pubblicò un terzo disco sulla Nonesuch Explorer Series, il magistrale “Escalay (The Water Wheel)”, ed è proprio un brano tratto da questo lavoro che verrà ripreso dal Kronos Quartet nel loro “Pieces Of Africa”. Due parole su questo splendido disco, uno dei migliori del Kronos, nel quale vengono ripresi brani di otto autori africani; il quartetto d`archi viene quasi sempre affiancato da strumenti dell`Africa che, spesso, vengono suonati dagli autori stessi dei brani (Hamza El Din compare al tar). La collaborazione con il Kronos avrà numerosi strascichi e la violoncellista Joan Jeanrenaud compare nella formazione che ha registrato l`ultimo disco del nubiano, “A Wish” (Sounds True, 1999).
Nel corso degli anni `70 suonò in più di un`occasione con i Grateful Dead, e il loro batterista Mickey Hart è alla consolle durante le registrazioni del suo quarto disco (“Eclipse”). In seguito compose musiche per il cinema e, dall`inizio degli anni `80, la sua musica venne scoperta in Giappone dove si trasferì, è così che venne pubblicato un buon numero di dischi per il mercato giapponese in cui è accompagnato da musicisti giapponesi e nei quali vengono utilizzati anche strumenti elettrici ed elettronici (vedi l`ottimo “Muwashshah” uscito nel 1995 su JVC). I suoi dischi sono abbastanza facili da reperire, e anche il materiale temporaneamente fuori catalogo viene periodicamente ristampato.


Passiamo adesso al più problematico Munir Bashir. Si tratta di un irakeno (nato a Mosul nel 1930 e morto nel 1997) che ha interpretato le tradizioni più popolari del medio oriente come il Maq m (forma modale della musica araba) per allargare poi i propri interessi sia verso oriente sia verso occidente, cioè al raga indiano e al flamenco spagnolo. Dischi come “Rag Roots” e “Flamenco Roots” (pubblicati su Byblos Records) non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni. Fra gli estimatori di Bashir ci sono musicisti che ben conosciamo quali Keiji Haino e L`Enfance Rouge (e devo ringraziare questi ultimi per avermelo fatto conoscere). Pur non avendo una discografia particolarmente estesa è comunque ben rappresentato, con numerose produzioni sia occidentali sia arabe, ed è quindi impossibile fare un quadro completo delle sue registrazioni. Restando nell`ambito delle cose che ho ascoltato consiglierei di iniziare gli acquisti da “L`art du `ud” (uscito in CD su etichetta Ocora come ristampa di un vinile del 1971) e “Babylon Mood” (uscito per l`etichetta Voix de l`Orient e contenente registrazioni del 1974). Il primo è un disco di solo oud registrato a Parigi mentre nel secondo, una produzione libanese, Bashir è accompagnato da alcuni strumentisti arabi. Penso che i due dischi possano dare un quadro sufficientemente esauriente sulla sua musica. Volendo approfondire esiste dell`ottimo materiale registrato in tempi più recenti. Molto bello è il doppio CD “Mesopotamia” allegato ad un bel libretto uscito per Le Chant Du Monde e registrato a Baghdad nel 1987. Infine c`è il trittico su Inedit: “En concert à Paris” (1987), “Maq mat” (1993) e “Méditations” (1995).



Il sitar è il più classico liuto indiano e pare che sia una derivazione dei liuti persiani. La cassa è formata da una mezza zucca svuotata, e lasciata essiccare accuratamente, coperta con un sottile strato di legno, mentre il manico è interamente di legno e i ponti su cui poggiano le corde in corno (solitamente di bufalo). Una prima versione dello strumento aveva tre corde, mentre oggi ne ha solitamente venti: sette di esse vengono suonate direttamente, tramite un anello metallico infilato nell`indice della mano destra, mentre le altre tredici (poste al di sotto delle prime) vibrano per `simpatia` con quelle. Il Sitar non è l`unico liuto della tradizione musicale indiana, fra gli altri il più noto è il Tambura (o Tampura), dalla forma più semplice con sole quattro o sei corde e raramente delle corde `simpatiche`, che viene solitamente utilizzato per creare dei sottofondi nelle improvvisazioni strumentali o per la voce umana.
Il musicista che ha maggiormente contribuito alla diffusione del Sitar in occidente è indubbiamente Ravi Shankar. “Three Ragas”, il suo primo disco, venne inciso a Londra nel 1956 e pubblicato dalla World Pacific (una sussidiaria della EMI). Si tratta di uno splendido lavoro in cui è possibile ascoltare la Sacra Trimurti della musica indiana: Sitar, Tabla e Tambura. In seguito l`influenza di Shankar si è estesa tanto, non solo nell`ambiente della sperimentazione ma anche in quello del pop, da farlo assurgere ad una popolarità pari a quella delle rock star: è così che lo troviamo presente ad alcune delle più importanti manifestazioni giovanili, dal “Monterey Pop Festival” al “Concert For Bangladesh”. In ambito più sperimentale si ricordano invece la colonna sonora per il film “Chappaqua” di Conrad Rooks e le collaborazioni con jazzisti e minimalisti. L`uomo ha pubblicato di tutto e di più, collaborando con i nomi più disparati e imbarcandosi anche in imprese colossali come i concerti per sitar e orchestra o con il coro del Kremlino. La produzione classica di Shankar è oggi in gran parte disponibile ad opera della Angel Records.
Tanta fu la popolarità di Shankar che trascinò con se quella degli strumenti, sitar e tambura, e quella della più tipica forma d`improvvisazione indiana, il raga. I liuti indiani vennero utilizzati soprattutto fra i minimalisti (LaMonte Young e Terry Riley) e fra gli psichedelici (soprattutto la Incredibile String Band) ma ebbero pure un`applicazione nella più popolare forma della canzone. A lungo è esistita una certa controversia su chi fosse stato il primo ad aver utilizzato il sitar all`interno della musica pop. Evitando di scadere in questa questione di tipo infantile (che mi fa pensare al classico: `maestra!!! Mi ha rubato la merenda...`) è bene sottolineare come alcuni fra i maggiori gruppi pop degli anni `60 abbiano fatto un utilizzo dello strumento, o abbiano cercato di imitarne le sonorità con le chitarre, in alcune delle loro canzoni: i Beatles con Norvegian Wood, Love You To, Within You Without You, Rain...; i Rolling Stones con Paint It, Black; i Kinks con See My Friend, gli Yardbirds con Heart Full Of Soul, i Pretty Things con Defectin Grey, i Byrds con Eight Miles High.... L`influenza della musica indiana fu però molto più ampia e andò ad abbracciare una cerchia di musicisti che vanno da John Coltrane a Don Cherry, da Carlos Santana e John McLauglin.
McLauglin, uno dei più convinti e attivi nel cercare una fusione fra musiche occidentali e orientali, nel 1971 pubblicò uno splendido disco su Douglas (“My Goal`s Beyond”) che alternava un lato di piccole gemme per chitarra acustica ad un altro in cui venivano mirabilmente miscelati strumenti occidentali, toccando in tal senso la sintesi più riuscita. Da lì a breve il chitarrista rientrerà fra le fila dell`ortodossia jazz-rock dando vita, con Goodman e Cobham, alla Mahavishnu Orchestra (importante ensemble che segna il passaggio fra un suono orchestrale classico ed un suono orchestrale elettrico di cui mi sono dimenticato nell'articolo dedicato alle Orchestre, ne chiedo venia al lettore). Questo esperimento non andrà comunque sprecato e McLaughlin se ne ricorderà , qualche anno dopo, al momento di formare Shakti.
Soprattutto i chitarristi furono colpiti dal fascino del Sitar e, oltre a McLauglin e Santana, vanno ricordati John Fahey, Stephen Basho e altri che adottarono il raga quale forma ufficiale delle loro peregrinazioni sulle corde della chitarra. Sinceramente devo dire che a questi, pur ammirevoli, chitarristi continuo a preferire i raga originali di Ravi Shankar e degli altri numerosi maestri indiani. Troppo più ricco e fantasioso è il loro suono.



Spostandoci ancora ad oriente troviamo il liuto cinese (pipa). Le sue prime forme risalgono addirittura all`anno 221 A.C. e la moderna versione con la cassa armonica a forma di pera probabilmente si è formata dalla fusione con un liuto arrivato in Cina dall`Asia Centrale intorno al 4° secolo. La forma attuale è in legno di paulonia, ha quattro corde, tradizionalmente in seta attorcigliata ed ora in nylon, sei ponti e 24 tasti.

Wu Man ha rappresentato per la diffusione del pipa presso il pubblico occidentale il corrispettivo di ciò che Ravi Shankar è stato per il sitar. Il primo disco di Wu Man per solo pipa è uscito nel 1991 per la China Record Co, e credo sia praticamente introvabile dalle nostre parti (il titolo è “The OverLord Removed off his Armour”). Poco male, perchè nel 1993 e nel 1996 sono seguiti due interessanti dischi su Nimbus Recods dove la strumentista interpreta brani dal repertorio cinese tradizionale e contemporaneo. Il primo dei due dischi è per solo pipa mentre nel secondo è di scena un ensemble composto esclusivamente da strumenti della tradizione cinese che, oltre al pipa, sono erhu e gaohu (violini), gu zheng (cetra da tavolo), suona (oboe), dizi e xiao (flauti). “Chinese Music For The Pipa” e “Chinese Contemporary & Traditional Music”, molto interessanti per chi vuole avvicinarsi alla musica cinese più pura, sono stati ristampati in un unico doppio CD intitolato “Chinese Traditional & Contemporary Music For Pipa & Ensemble”. Ma la strumentista che più ci interessa è quella che è andata contaminando la tradizione cinese con quelle di altri paesi, soprattutto quella americana. La sua attività in tal senso si è spesso espressa attraverso dei duetti che magari - com`è il caso del recente “Wu Man And Friends” (Traditional Crossroads) nel quale interagisce con Lee Knight (monti Appalachi), Julian Kytasty (Ucraina) e James Makubuya (Uganda) (si tratta infatti di un patinato e scialbo disco di `world music` nel senso peggiore del termine) - non sempre sono pienamente riusciti. Sicuramente migliori sono le collaborazioni con i giapponesi Tatsu Aoki (contrabbasso) e Yoshio Kurahashi (shakuhachi), rispettivamente in “Posture Of Reality” (Asian Improv Records) e in alcuni brani di “Aki No Yugure” (Sparkling Beatnik Records). Nel primo disco siamo chiaramente nel settore della musica improvvisata di tipo contemporaneo mentre il secondo è un disco più legato alla musica tradizionale giapponese. Ma, sempre restando nel settore delle collaborazioni a due, i lavori su cui puntare maggiormente l`occhio sono i magistrali ”Music For The Motherless Child” (1996, Water Lily Acoustics) e “China Collage” (1996, Avant). Il primo è una collaborazione con il chitarrista Martin Simpson ed è essenzialmente calato nella memoria folk afroamericana. Il disco è molto tradizionale e pure bellissimo, curatissimo e riuscitissimo nel fondere le sonorità dei due strumenti a corda senza strappi nè forzature. Il concetto di fondo, ben spiegato nelle note, sta nella riunificazione di questi due strumenti a corda che sembra abbiano una derivazione comune, cioè nei primitivi liuti del medio oriente, riunificazione che è avvenuta viaggiando verso est da una parte e verso ovest dall`altra.
“China Collage” è invece una collaborazione con la cantante e compositrice cinese Liu Sola, ed è quindi giocato tutto in casa, seppure sotto l`egida di un produttore come Bill Laswell e di un produttore esecutivo come John Zorn (quest`ultimo è un nome nel quale ci imbatteremo piuttosto di frequente nello sviluppo di questo articolo). Il disco è chiaramente più avventuroso dell`altro, ma altrettanto bello, con la cantante che passa da alcuni momenti in cui ricorda la Yoko Ono più stridula e inviperita ad altri in cui il tono della voce si fa più profondo, ammaliante e confidenziale. La strumentista risponde da par suo con uno stile libero che fa proprie le scenografie tipiche degli strumenti cordofoni a plettro o a pizzico nella musica contemporanea.
La collaborazione fra Liu Sola e Wu Man non si è però limitata solo a questo gioiello, ma ha dato anche altri frutti, fra i quali l`interessantissimo “Blues In The East” firmato dalla sola cantante-compositrice ed uscito su Axiom nel 1994; si tratta di un disco nel quale, sotto l`egida di Laswell, si celebra un intento di fusione fra opera cinese e tradizioni afro-americane, e lo si fa in grande stile con un parco di strumentisti di prima scelta (fra gli strumenti utilizzati vi sono anche shakuhachi, percussioni africane e percussioni giapponesi): James Blood Ulmer, Amina Claudine Myers, Henry Threadgill, Ned Rothenberg....
“Sola & Friends” (Also Productions Inc., 2000) ripropone quasi tutto il repertorio di “China Collage” registrato in concerto al festival jazz di Pechino del 1999. Il duo è allargato a quartetto per la presenza di Fernando Saunders al basso e Pheeroan Ak Laff alla batteria. Si tratta chiaramente di versioni più piene, ma anche più elettriche e funky. Suona un po` come quei dischi fatti da reduci o tardoni della no wave (meglio i primi che almeno quella battaglia l`hanno combattuta). I quattro suonano senza sbavature e il feeling è sicuramente adatto alla dimensione del concerto, ma il fascino degli originali ne esce svilito. Un altro lavoro in cui le due tipe vanno a braccetto, questa volta in coppia ad esclusione della chitarra di Jamil Abbas in un breve spezzone, è la suite strumentale per solo pipa “Spring Snowfall” (Also Production Inc., 2000). Si tratta di un disco interessante se pure alla distanza risulti un po` troppo ostico e noioso (fors`anche freddo) all`ascolto di un orecchio occidentale. Con il beneplacito del tempo e della pazienza, cioè dopo numerosi ascolti, sono però sicuro che il disco potrebbe risultarvi piacevole.
Il disco più sorprendente di Wu Man è però “From A Distance” uscito su Naxos World (2003). Ho letto delle critiche feroci a questo disco sparate dai tradizionalisti ad oltranza (probabilmente i nipotini di quelli che fischiarono Bob Dylan al festival di Newport), e ne capisco anche i motivi, ma sono certo che gli avanguardisti tutti d`un pezzo potrebbero addirittura fare di peggio. Eppure questo è forse il suo disco più sperimentale, perchè se utilizzare il liuto della tradizione cinese, anche elettrificato, in un quartetto comprendente didjeridu e trombone (Stuart Dempster), chitarre, banjos e campionatori (Abel Domingues) e giradischi (Dj Tamara) non vuol dire sperimentare, allora non so proprio a cosa poter ricondurre l`idea di sperimentazione. Nel disco ci sono molte musiche tradizionali della Cina, rivisitate con una creatività abbagliante, ma anche momenti di improvvisazione e composizioni originali ispirate a stili occidentali come il rock e il blues (Hangzhou Blues si rifà direttamente allo stile di Jimi Hendrix).
Chiaramente la discografia di Wu Man è molto più ampia e si allarga a compilation, colonne sonore e altre collaborazioni illustri. Fra queste ultime meritano almeno una citazione “Hsi-Yu Chi”, storico debutto di David Shea su Tzadik (1995), la “Ghost Opera” di Tan Dun, incisa da Wu Man in collaborazione con il Kronos Quartet (Nonesuch,1997), e “The Child God” di Bun-Ching Lam (ancora su Tzadik, 1998). L`ascolto della “Ghost Opera (for String Quartet and Pipa with water, stones, paper, and metal)” è, in particolare, vivamente consigliato, data la sua propensione ad affiancare mondi apparentemente distanti (sia in orizzontale che in verticale: est-ovest e passato-presente-futuro); ed è un vero peccato che l`ascolto in supporto nasconda l`aspetto visuale che, a giudicare dalle due immagini riportate nel libretto, sembra essere particolarmente suggestivo.

Dopo Wu Man sembrerebbe arduo spostare ulteriormente in avanti i rapporti fra questo strumento, lo strumentista e l`opera musicale che ne deriva, eppure Min Xiao-Fen ci riesce. Se Wu Man è il Ravi Shankar dello strumento, Min Xiao-Fen ne è il Derek Bailey. Il suo secondo disco, “Spring, River, Flower, Moon, Night” (1997), un lavoro di melodie tradizionali cinesi riproposte in completa solitudine, destò stupore perchè venne pubblicato da un etichetta, come la Asphodel, che era occupata nella pubblicazione di tutt`altre musiche. Chiaramente il disco è molto bello, però c`è da osservare che un anno prima la strumentista aveva esordito con un disco ancor più bello, “The Moon Rising” uscito per la piccola Cala Records, che però era passato quasi inosservato: nelle sue mani il pipa vibra come un canarino in bocca ad un gatto (ma in alcuni brani viene utilizzato anche un altro liuto della tradizione cinese, il ruan conosciuto anche come `moon guitar`: quattro corde, cassa armonica tonda e un numero minore di tasti del pipa). Questi due dischi sono la premessa ai più sperimentali, ed eccellenti, lavori pubblicati dalla Avant nel 1998. In “With Six Composers” vengono interpretate sei composizioni di autori contemporanei, in buona parte sono cinesi, oltre ad una composizione della stessa strumentista. Gli autori sono in parte gli stessi del disco in cui Wu Man interpretava i contemporanei: Tan Dun (di cui le due riprendono un brano dalla stessa serie: C-A-G-E III per Min e C-A-G-E IV per Wu Man), Bun-Ching Lam (Run per entrambe) e Chen Yi (brani diversi); in “...Six Composers” si possono però ascoltare anche brani di Hsu Po-Yun, Zhou Long e dell`afroamericano Leo Smith. I due dischi, seppure quello di Wu Man fosse in buona parte per ensemble, permettono un confronto fra lo stile delle due strumentiste, e il risultato del raffronto mostra quanto Min Xiao-Fen sia più dirompente non solo rispetto alla tradizione del pipa ma anche rispetto allo stato della musica in generale.
Il secondo disco pubblicato su Avant (“Viper”) è una sicura conferma a quanto detto finora, trattandosi di una serie di duetti con la chitarra di Derek Bailey. Questi duetti avranno una replica in “Flying Dragons” pubblicato nel 2002 dalla Incus. Indubbiamente queste sono le premesse all`ingresso della strumentista nel grande giro, con partecipazioni ad alcuni dischi di John Zorn (“Filmworks VIII” e “XII”) e la presenza in alcune formazioni di jazz contemporaneo. Ha così modo di distinguersi portando un po` d`aria fresca in buoni dischi come “Ghost Stories” di Ned Rothenberg (Tzadik, 2000) e “The Art Of Improvisation” del Leroy Jenkins` Driftwood (Mutable Music, 2005), seppure non siano certo questi i punti di volta della sua arte. Nel 2002 ha pubblicato anche un video (su formati VHS e DVD) con alcune esecuzioni registrate in concerto ed una parte interamente dedicata alla presentazione del pipa (“Live” su Roulette).



Lo shamisen (o jamisen) è un liuto giapponese con la cassa armonica quadrata e tre corde (per questo motivo è anche chiamato sangen, letteralmente tre corde). Il manico è privo di tastiera e le corde poggiano su due unici ponti, uno posto a valle della cassa armonica ed uno in cima al manico. La corda più bassa poggia solitamente non sul ponte posto in cima al manico ma su una tacca, separata da esso, e passa sopra ad una protuberanza della superficie del manico contro cui urta sia quando viene suonata direttamente sia quando vibra a causa della risonanza con le altre corde, questo meccanismo serve a produrre un tipico suono ronzante. A seconda della grossezza del manico, che cambia da scuola a scuola e da regione a regione, lo shamisen può essere distinto in futozao-shamisen, tsugaru-shamisen, hosozao-shamisen, chûzao-shamisen.... Anche le forme arcaiche di questo strumento sembrano provenire, passando attraverso la Cina, dalle zone del Medio Oriente. Questo fa supporre che vi sia stata una prima forma comune per tutti i liuti.

Michihiro Sato è descritto come uno strumentista dalla tecnica spettacolare e stupefacente e, tenuto conto che il suo sponsor maggiore si chiama John Zorn, c`è da crederci. E` stato proprio Zorn a produrre il suo primo disco uscito nel 1989 per la Hat Hut. In “Rodan” lo strumentista è accompagnato da nomi illustri dell`entourage zorniano che vanno a costituire una serie di formazioni ad interscambio com`era costume nell`avant-jazz newyorchese di quegli anni. Tenetevi forte: Bill Frisell, Fred Frith, Tenko, Mark Miller, Nicolas Collins, Christian Marclay, Steve Colemann, Ikue Mori, Luli Shioi, Elliott Sharp, Samm Bennett, Ned Rothenberg, Tom Cora, Joey Baron, Mark Dresser e Gerry Hemingway contribuiscono alla stesura di un disco originale, intenso e interessante. La produzione di Zorn era giunta dopo che l`ex `Ebreo Errante` aveva richiesto la presenza del giapponese nella registrazione di “The Big Gundown - John Zorn Plays The Music Of Ennio Morricone” (sul brano Giù la testa) e dopo che i due avevano inciso in coppia “Ganryu Island”, uscito in vinile nel 1985 su Yukon e ristampato in seguito dalla Tzadik in un CD con alcune piste aggiunte. Quest`ultimo è un disco che procede come un autentica battaglia ed è dedicato allo scontro fra i samurai Miyamoto Musashi e Sasaki Kojiro, avvenuto appunto nella piccola `Isola Ganryu`.
Non tutta la sua discografia è reperibile, e i due dischi pubblicati su Kyoto nel 1995 (“Jonkara; Pure Sound of Japan; Tsugaru-shamisen no Sekai” e “Natsu Yoi Matsuri”) sono autentiche chimere, ma se volete indagare l`aspetto più nipponico della sua musica non avete che da scegliere fra “Tamashii no Neiro, Tsigaru-shamisen: Satoh Michihiro no Shigoto” (Waon/PSF, 1993), “Tsuki mo Kooru Yoru ni” ovvero `On a cold, cold night` (Waon/PSF, 2000) e “Tohoku Roman” (Aoistudio, 2004). Il primo è diviso fra brani in solo e altri in duo con Yugen Yashita allo shakuhachi (il flauto di bambù giapponese); il secondo è in completa solitudine; il terzo alterna brani in solo ad altri in cui è accompagnato in varie formule da Shozan Tanabe (shakuhachi), Masaki Yoshimi (tabla) e Shigeri Kitsu (taiko e altri strumenti a percussione). Naturalmente si tratta di tre dischi molto interessanti e di ottimo livello.
Di rilievo è anche la sua presenza nello String Quartet Of Tokyo del contrabbassista Tetsu Saitoh, con all`attivo un disco molto interessante nel 1992 su TAO intitolato “The String Quartet Of Tokio & Orchestra”, che vede coinvolti anche il kotoista Hideaki Kuribayashi e il chitarrista Koichi Hiroki (fra gli strumenti che appaiono nella versione allargata dell`ensemble c`è anche il biwa, che è più o meno la versione giapponese del pipa: www.hogaku.it/strumenti/biwa.html). Inutile dire che si tratta di un disco particolarmente consigliato a chi apprezza gli impasti strumentali inconsueti.
Fra le collaborazioni che coinvolgono Michihiro Sato si segnalano invece “Improvisations 07 October 1994” (Trust, 1997) con Mamoru Fujieda e Sean G. Meehan e lo splendido “Tayutayuto; Tadayoitamae; Kono furue” (PSF, 2004) in duo con Keiji Haino. Il primo è un ottimo disco d`improvvisazione contemporanea racchiuso in una particolare confezione artistica, come avviene sempre per i dischi in cui compare Meehan, ma purtroppo non è facilmente reperibile. Il secondo è invece un disco essenzialmente blues che ha già occupato la posizione al top delle nostre recensioni, e ciò dovrebbe bastare. E` infine obbligatorio segnalare la sua presenza in “Testament: A Conduction Collection” di `Butch` Morris(Per rintracciare materiale su Michihiro Sato in rete è meglio digitare il suo nome scritto in caratteri giapponesi: 佐藤通弘).

Meno legata alla tradizione è la giovanissima Yumiko Tanaka, che si è fatta le ossa nei gruppi di Otomo Yoshihide e Yuji Takahashi. Si distingue per un approccio meno tecnico, più minimale, raccolto e moderno. Allo strimpellamento per accordo preferisce rarefatti tocchi isolati, sfregamenti con `archi` e arpeggi che sembrano originati da una tastiera. Con Yuji Takahashi la troviamo in “Finger Light” (Tzadik, 1995) e in due dischi della giapponese Fontec (le cui copertine promettono però poco di buono). Con Otomo ha invece partecipatao, tra l`altro, agli ultimi dischi dei Ground Zero e a “Cathode” (Tzadik, 1999).
Due parole per dare ad Otomo quel ch`è di Otomo, dato che con le sue formazioni si è particolarmente distinto nel miscelare elementi quali strumenti occidentali, strumenti orientali e strumenti elettronici; particolarmente consigliato è “Plays Standards” dei Ground-Zero (Nani Records, 1997), con una formazione comprendente Sachiko M e Tanaka Yumiko (quali elementi spuri) alle prese con brani `classici`, i cui autori vanno da Victor Jara a Misha Mengelberg, passando per Berthold Brecht ed i Material (Tanaka Yumiko, oltre che a vari tipi di shamisen, si cimenta anche al koto).
A volte si esibisce anche nel gidayu, la tradizionale forma di canto accompagnato dallo shamisen. Inoltre fa pendant con Michihiro Sato nel disco di `Butch` Morris già citato sopra. I dischi a suo nome sono ancora pochi, ma tutti di alta qualità , ad iniziare dal solo “Tayutauta” (Improvised Music Fron Japan, 2003) e da “Continental Crust” (Sofa, 2005) in duo con il chitarrista norvegese Ivar Grydeland. Poi ci sarebbe “Kitchen Drinkers Art Box: Moso Fluxus” (bravo chi lo trova), doppio CD del duo Kitchen Drinkers (che Yumiko Tanaka condivide con la cantante Mikako Mihashi). Si tratta di una realizzazione uscita in una serie speciale in collaborazione con il vignettista Takashi Remoto, il box contiene vari oggetti ed i due dischi, divisi in `red` e `purple`, constano rispettivamente di 24 e 13 brani incisi in duo o con vari ospiti (Michiyo Yagi, Otomo Yoshihide, Masahiro Uemura, Kazuto Shimizu...); si tratta di folli quadretti registrati in concerto che contengono un incredibile frullato di ogni genere musicale possibile (fra i brani una cover di We Will Rock You dei Queen).



Dai liuti ci spostiamo sulle cetre, strumenti a corda senza manico, per parlare del koto (o sô) che sta musicalmente al Giappone come Sitar, Pipa e Oud stanno rispettivamente a India, Cina e Mondo Arabo. Il koto è uno strumento con cassa armonica in legno, solitamente paulonia, alle cui estremità ci sono due ponticelli fissi che tengono in posizione le 13 corde (tradizionalmente in seta). Ogni corda è poi appoggita su un ponticello mobile a forma di Y rovesciata attraverso cui si può variare la lunghezza delle porzioni di corda che entrano in vibrazione e, di conseguenza, la tonalità del suono emesso. Tradizionalmente le corde venivano pizzicate con tre plettri fissati alle prime tre dita della mano destra, mentre la mano sinistra veniva utilizzata unicamente per variare la tensione delle corde, ma attualmente sono molti gli strumentisti che utilizzano entrambe le mani per suonare direttamente le corde. Naturalmente lo strumento, a seconda delle scuole, varia per dimensioni, forma, rifiniture e accordatura. Esistono poi varianti a 15, 17, 20 e 30 corde (esiste anche un prototipo a 80 corde che però non è stato praticamente mai utilizzato). Si tratta di uno strumento particolarmente ben disposto per preparazioni e manipolazioni varie.

Parlare di koto nella musica contemporanea vuol dire parlare della grandissima Kazue Sawai. Il suo primo CD “Eye To Eye” del 1987, uscito su Art Front Produce e oggi chimera irraggiungibile, è considerato una delle pietre miliari del folk acido giapponese (ad esso collaboravano Peter Hammill e Robin Williamson). Purtroppo buona parte della sua discografia, abbastanza consistente, è difficilmente reperibile, ma vi consiglio di fare uno sforzo nella ricerca e di tenere gli occhi aperti su eventuali ristampe perchè ne vale davvero la pena. Personalmente, oltre al disco d`esordio, non sono mai riuscito a trovare titoli importanti come “Three Strangers In Paris” (Kyoto Records, 1995, con Sofia Gubaidulina al piano e Mayumi Miyata allo shô) e “Midare - Kazue Sawai plays koto classics” (Kyoto Records, 1995, brani di autori giapponesi eseguiti in solo e in duo con il marito Tadao Sawai o con Kuribayashi Hideaki): ma i dischi della Kyoto Records (ha in catalogo anche dei titoli di Michihiro Sato) sono maltrovabili perfino in Giappone, peccato perchè dovrebbe trattarsi di roba veramente speciale. Un gruppetto di dischi ormai fuori catalogo sui quali mi posso soffermare di più, poichè ne sono in possesso, sono i tre dedicati ad alcuni compositori contemporanei: il bellissimo “The Wind Is Calling Me Outside” (ALM Records/Kojima Recordings, 1990), “Three Pieces” (My Record/Collecta, 1992) e “Live at Dacapo in Bremen `93” (d`c Records, 1993). Il primo dei tre è dedicato alla musica per koto scritta da Yuji Takahashi, un compositore giapponese il cui nome ricorre in questo articolo, e verosimilmente destinata in specifico alla sua interpretazione. Molti di questi brani si rifanno a testi poetici e da ciò deriva indubbiamente la loro intima delicatezza. In “Three Pieces” gli autori riproposti sono John Cage, Christian Wolff e Takashi Kato. Di Cage viene proposto un eccellente arrangiamento di Three Dances, per quattro koto preparati, nella cui esecuzione è affiancata da Yoko Nishi, Hideaki Kuribayashi e Etsuko Gunji. Con Malvina di Wolff la strumentista si cala ancora su atmosfere poetiche e malinconiche mentre può apparire eccessiva l`idea del Concerto For Koto And Orchestra scritto dal compositore giapponese contemporaneo (un allievo di Messiaen) Takashi Kako (ma l`ascolto scioglie ogni dubbio svelando un brano assolutamente misurato, equilibrato e pienamente riuscito).Midare_Kazue_Sawai_plays_koto_classics In “Live at Dacapo...” alterna brani per solo koto ad altri per ensemble di koto, una formula al cui sviluppo ha contribuito considerevolmente attraverso la sua attività (dell`ensemble fa parte quella Michiyo Yagi di cui diremo fra qualche riga). Nei brani in solo riprende The Wind Is Calling Me Outside di Takahashi e Midare, notevole escursione nel repertorio di un autore giapponese d`inizio `600 (Yatsuhashi Kengyo). I brani per ensemble pescano nel repertorio di altri kotoisti, il marito Tadao Sawai e il suo allievo preferito Hideaki Kuribayashi, e di un ulteriore compositore giapponese contemporaneo (Akira Nishimura). In chiusura v`è poi il ricordo silenzioso ad un John Cage scomparso l`anno precedente (4`33”). “Ta-Wa-Go” (God Mountain, 1995, con Junji Hirose: sax e `hand-made noise machine`, e Hoppy Kamiyama: piano preparato, campionatori e `gram-pot`) è un altro gran bel disco che alterna esposizioni solitarie ad altre in trio (si tratta di un disco relativamente disponibile e potreste iniziare da qui l`abbordaggio alla sua discografia).
Ho finora detto di alcuni dischi praticamente introvabili o quasi, almeno al momento in cui sto scrivendo, ma non vi allarmate perchè nel settore delle collaborazioni ci sono delle cose altrettanto valide e di più facile reperibilità . Certamente anche fra le collaborazioni ci sono cose introvabili, come “Poem Song” di Joseph Jarman (Baybridge Records, 1991) o come “Yaeyama Yugyoh” (Jabara, 1996) in duo con il contrabbassista Saitoh Tetsu. Quest`ultimo, che suona anche in “Poem Song” e il cui nome abbiamo già incontrato nella parte dedicata a Michihiro Sato, svolge un ruolo importante nelle recenti vicende della kotoista, come capirete dalle prossime righe. Ma intanto torniamo sulle collaborazioni di Kazue Sawai per segnalare “Organic - Mineral” (In Situ, 2001) in duo con Joëlle Léandre, a proposito del quale posso finalmente dire che non vi sono problemi di reperibilità .Natsu_Yoi_Matsuri_di_Michihiro_Sato Il feeling più esaltante è però quello con Michel Doneda, che ha in “Temps Couché” (Victo, 1998) la prima documentazione discografica. Si tratta di un disco interessante, se pure leggermente inficiato dalla voce del terzo incomodo, Beñat Achiary, che trovo troppo impostata operisticamente. Il sodalizio con Doneda si sviluppa, ed il secondo documento è un disco registrato a Tokyo da un trio che, oltre al tandem, comprende anche Saitoh Tetsu. “Live At Hall Egg Farm” (Sparkling Beatnik Records, 2000) è ottimo e mostra i notevoli progressi fatti da entrambi nella ricerca di un linguaggio comune. Ma il meglio deve venire, ed arriva nell`allargamento da trio a quintetto con l`ingresso del percussionista Lª Quan Ninh (mai scelta fu più felice) e del chitarrista Kazuo Imai. I cinque partecipano al 20° Festival di Victoriaville del 2003 dove registrano “Une chance pour l`ombre” (Victo, 2004), uno di quei dischi che già al primo ascolto ti chiedi perchè non l`hai comprato prima. Un`altra perla del quintetto è stata pubblicata anche in uno dei due CD allegati all`edizione del 2004 della rivista edita dalla Improvised Music from Japan. Il suo ultimo disco è "Tayutafu" (Kyoto Records, 2005), una raccolta con brani di Kengyo Yatsuhashi, Sofia Gubaidulina, Kengyo Mitsuzaki e Robin Williamson. Kazue Sawai, oltre che come musicista, è impegnata nella Sawai Koto Academy che ha fondato insieme al marito. (Per rintracciare materiale su Kazue Sawai in rete è meglio digitare il suo nome scritto in caratteri giapponesi: 沢井 一恵).

Miya Masaoka vive da tempo a San Francisco, dove insegna in più di un istituto, e questo si riflette nel suo approccio alla musica ed alla composizione che è molto più `occidentalizzato` rispetto a quello di Kazue Sawai. Ha composto musiche per orchestra, per coro ed opere elettroacustiche conquistandosi un posto di rilievo all`interno della musica contemporanea. In questa occasione mi limiterò comunque ad esporre la sua attività come kotoista. L`esordio discografico risale al 1993 ed è pubblicato dalla Asian Improv Records. “Compositions - Improvisations” è un disco con 6 brani per solo koto e due duetti (uno con Frank Holder ed uno con James Newton) che rappresenta un ottimo biglietto da visita e, soprattutto, mostra gli interessi e la linea direttrice della strumentista in una cover tratta dal repertorio di Duke Ellington (Come Sunday dalla suite “Black, Brown and Beige”). Dal duca al monaco il passo è più breve di quanto può sembrare e quattro anni dopo la Masaoka stupisce con un disco in cui, alla guida di un proprio trio, reinterpreta alcune gemme di Thelonious Monk. “Monk`s Japanese Folk Song” esce in Germania su Dizim Records e il Trio, veramente d`eccezione, è completato da due eroi della new thing come Reggie Workman e Andrew Cyrille. Da queste prime avvisaglie appare chiaro come la strumentista voglia mettere la tradizione improvvisativa afro-americana quale punto di partenza della sua attività e, contemporaneamente, intenda ritagliare per il koto uno spazio simile a quello che storicamente era stato appannaggio del pianoforte.
In realtà questi sono i suoi unici dischi come leader univoca in cui utilizza il koto, ai quali si possono però affiancare numerose opere nelle quali appare come componente di prestigiosi collettivi. Fra le sue collaborazioni occupano un posto di rilievo, visto il numero di realizzazioni e la durata nel tempo, quelle con Larry Ochs e con Gino Robair. La collaborazione con il sassofonista del Rova inizia nell`ensemble Maybe Monday, che comprendeva anche Fred Frith (quest`ultimo era in realtà il leader reale del gruppo). Un primo disco venne realizzato nel 1999 su Buzz-Records (“Saturn`s Finger”) ed un secondo nel 2002 su Winter & Winter, con aggiunto un quarto elemento nella figura della violoncellista Joan Jeanrenaud (“Digital Wildlife”). All`interno dei Maybe Monday la strumentista conferma la tendenza, già emersa nel tributo a Monk, ad assumere con il suo strumento un ruolo da pianista. Dallo split dei Maybe Monday nasce un trio di koto, sax e violoncello, con Larry Ochs quale leader effettivo e con un disco realizzato nel 2003 su Intakt. Questo trio continua ad essere attivo anche se, al violoncello, Peggy Lee e Okkyung Lee si alternano oggi in sostituzione della Jeanrenaud. I tre dischi sono validi, se pure a tratti pecchino in un eccesso di formalismi.
Più attraente e più `libera` mi sembra la collaborazione con Robair, almeno per quanto concerne due titoli: “Crepuscolar Music” (1995) in trio con Tom Nunn e “Illuminations (Several Views”, 2003) in trio con Peter Kowald (entrambi i dischi sono stati pubblicati su Rastascan). Minori, ma pur sempre di grande interesse, sono invece “Guerrilla Mosaics” del trio con John Butcher e “Klang. Farbe. Melodie.” del quartetto con Biggi Vinkeloe e George Cremaschi (entrambi usciti su 482 Music, nel 2002 e nel 2004 rispettivamente). Fra le altre collaborazioni si segnala il magistrale “Cloud Plate” nel quale il koto interagisce con la voce di Kaoru, le chitarre di G. E. Stinson e le percussioni di Alex Cline (Cryptogramophone, 2005). Ancora notevole il duo con George Lewis, “The Usual Turmoil and Other Duets” del 1998 uscito per Music & Arts, che ne mostra ancora l`interesse per l`improvvisazione di tradizione afroamericana. “Sliding” in coppia con Jon Rose (del 1998) è invece il suo unico disco pubblicato per una casa discografica orientale, la Noise Asia di Hong Kong e si mantiene su buoni livelli. Pollice verso, infine, per il trio con la violoncellista Danielle DeGruttola e il chitarrista Henry Kaiser, che nel 1996 ha pubblicato il fiacco “The Seance” (Vexed).

Il post Sawai è rappresentato dall`intraprendente Yagi Michiyo, che già dal notevole disco d`esordio come solista, “Shizuko” (Tzadik, 1999), si è fatta ripetutamente notare dal pubblico occidentale. Rispetto all`esempio illustre della Sawai, questa giovane leonessa pare avere un approccio più sbarazzino (forse fin troppo) nei confronti dei generi musicali e delle collaborazioni, i cui attraversamenti paiono molto più liberati, e nei confronti dello strumento stesso, la cui preparazione diventa spesso manipolazione tout court. E` quindi piuttosto consueto trovarla armata di archetti, bacchette da batteria e altri oggetti che utilizza per strofinare/percuotere le corde in alternanza con i classici plettri. L`altro aspetto che la distingue è un`attitudine che affianca all`attività della strumentista quella della compositrice, tanto che i brani dei suoi dischi portano normalmente la sua firma. Accanto a ciò devo dire che riserva una maggiore attenzione anche al look ed alla fattura delle confezioni che risultano sempre impregnate da un elegante, e non certo discreto, fascino. Proprio allo scadere del 2005 il suo fulminante esordio è stato bissato dal meno sorprendente, ma altrettanto buono, “Seventeen” (Zipangu Products).
Trovo che il suo disco più riuscito sia però “Yural” (BAJ Records, 2001), nel quale è affiancata dall`ensemble Paulownia Crush formato dai sei giovani kotoisti Takahashi Hiroko, Inoue Hiromi, Takeuchi Yasuyo, Nakano Madoka, Seki Ikumi e Sumino Yuka. Il disco, interamente composto e arrangiato da Satoh Masahiko, si distingue per la sua leggerezza di piuma e per un`attitudine a miscelare in porzioni pressochè equamini tradizione e cultura contemporanea.
Yagi Michiyo ha collaborato con quasi tutte le realtà della scena musicale giapponese contemporanea, facendo anche parte di tre formazioni piuttosto stabili: Hoahio, Kokoo e Koto Vortex. Le Hoahio si sono formate intorno al 1997 per iniziativa di Haco, Sachiko M e della stessa Michiyo e, con questa formula, hanno pubblicato due CD di canzoncine strvaganti, stranulate e sconvolte: “Happy Mail” (Amoebic, 1997) e “Ohayo! Hoahio!” (Tzadik, 2000). Poi Sachiko M ha abbandonato ed è stata sostituita dalla percussionista Era Mari e, con questa formazione, il gruppo ha pubblicato nel 2003 il suo miglior disco su Tzadik (“Peek-Ara-Boo”). Di tutt`altra pasta è fatto Kokoo, si tratta di un trio guidato dal virtuoso suonatore di shakuhachi Nakamura Akikazu e completato dall`altra kotoista Maruta Miki. Le copertine dei dischi fanno venire in mente Kraftwerk e Rockets e la musica, di concerto, è una giapponeseria veramente kitsch. Nei due CD pubblicati (“Zoom”, 1999, e “Super-Nova”, 2000, entrambi su King Record Co.) i tre propongono qualche brano originale e molte reinterpretazioni, soprattutto versioni strumentali di brani famosi della tradizione rock: Purple Haze di Hendrix, Warzawa di Bowie, Tarkus di EL&P, Dropping The Torch di Peter Hammill, Peaches En Regalia di Zappa, One Of These Days dei Pink Floyd, Moochild dei King Crimson, She`s Leaving Home ed Eleanor Rigby dei Beatles ed una Led Zeppelin Variation. Per loro si tratta sicuramente di una cosa molto divertente e se volete saggiare l`ascolto fate pure, ma poi non ditemi che non vi avevo avvertito. Il Koto Vortex è un ensemble interpretativo che si pone come contraltare al classico quartetto d`archi occidentale, e non è quindi un caso se ha in repertorio White Man Sleeps di Kevin Volans già interpretato dal Kronos Quartet (lo potete trovare anche nel già citato “Pieces Of Africa”). Il quartetto (completato da Yoko Nishi, Miki Maruta e Etsuko Takezawa) ha all`attivo due CD su Dainippon Katei Ongakukai/Pradise: “Koto Vortex I: Works by Hiroshi Yoshimura” (1994) e “Koto Vortex II: Arcadia” (1996). Un altro lavoro in cui è possibile ascoltare il quartetto è “Stone Out” di Tetsu Saitoh (Omba Records, 1996). Credo che l`ensemble sia ancora in attività , se pure senza Michiyo Yagi in formazione (sostituita da Ryuko Mizutani).

Quello di Brett Larner è un caso più unico che raro: si tratta infatti di uno strumentista canadese, credo che inizialmente fosse dedito alla chitarra, che viene trattato in Giappone al pari dei kotoisti giapponesi. Il suo approccio allo strumento, mancandogli comunque quel retroterra culturale, è molto interessante e ancor più libero di quello delle tre strumentiste di cui abbiamo appena scritto. Ne è esempio perfetto il suo primo e al momento unico disco in solo, “Telemetry Transmissom” (Sparkling Beatnik, 1999), un lavoro per koto e giroscopio, oltre un`ora di ronzii tanto fastidiosi quanto affascinanti. Ci sono poi una serie di lavori in duo che ne mostrano l`adattabilità al linguaggio di partner quanto mai distanti fra loro, dai silenzi di Taku Sugimoto i “Deluxe Nakamura” (Sparkling Beatnik, 2002) e di Toshimaru Nakamura in “After School Activity” (Impermanent Recordings, 2003) alle perfette geometrie di Anthony Braxton in “11 Compositions (Duo) 1995” (Leo Records, 1997). Alcuni duetti (Jim O`Rourke, Ted Reichman, Samm Bennett, John Shiurba, Anthony Braxton, G.E. Stinson, Gianni Gebbia, Taku Sugimoto, Loren Mazzacane Connors e Gino Robair) sono stati raccolti nello splendido “Itadakimasu” (Spool, 2001), dove suona anche il guzheng. Sempre la Spool ha pubblicato nel 2003 un lavoro in trio con Joëlle Léandre e Kazuhisa Uchihashi. “Indistancing” (Leo Records, 1999) è egualmente un trio, ma la formula ricalca quella dei Kokoo: due koto (Larner e Shoko Hikage) e uno shakuhachi (Philip Gelb); la musica è naturalmente ben diversa (molto meno patinata e kitsch).
Un`attenzione particolare va riservata a “Soemun” (Sparkling Beatnik, 2000), un CD ad opera dell`ensemble eponimo formato da soli kotoisti. Si tratta di un gruppo di allievi della Sawai Koto Academy - che comprende Larner e altri 11 kotoisti giapponesi - dal suono epico, lirico e, a suo modo, selvaggio, che raggiunge lo zenit nelle battute finali del disco con la blla cavalcata, dai risvolti morriconiani, Yume No Wa. Ache la discografia di Larner non è chiaramente reperibile per intero, anche perchè rispetto agli altri musicisti trattati si aggiunge una cospicua produzione in CD-R, mp3 ed edizioni rare. Fra le collaborazioni, per gli amanti del suono Skin Graft, segnalo “Open Mouth, O Wisp” del Gorge Trio.
Chiaramente la cerchia dei grandi kotoisti `contemporanei` non si limita a questi quattro nomi, ma per gli altri l`ambito d`azione si limita ai confini nazionali (il lettore interessato non farà comunque fatica a rintracciarne i nomi ed ad individuarne l`eventuale produzione discografica). Soprattutto si assiste ad un vivaio incredibile di giovanissimi, molti dei quali vengono sfornati dalla Sawai Koto Academy, e fra questi è il caso di segnalare Mori Chieko dal momento che ha frequentato a lungo l`occidente (anche l`Italia) ed ha già pubblicato due CD (“Jumping Rabbit” nel 2005 su Tzadik e “Katyou Fuugetsu” nel 2006 su Felmay). Si tratta di una giovanissima allieva dei Sawai dallo stile limpido e cristallino, in bilico fra modernismo e tradizione, che, seppur ancora lontana dalla forza dirompente dei maestri già trattati, rappresenta certamente una buona promessa per il futuro.



Le origini del koto sembrano essere nella Cina, e più o meno tutti i paesi del continente asiatico orientale hanno uno o più strumenti simili che si differenziano per il numero delle corde, la posizione dei ponti, la grandezza, la postura del suonatore e l`accordatura. In Vietnam c`è il dan tranh, in Corea il kayagûm e in Cina il guzheng.
La fenomenale Xu Feng Xia vive in Germania ed al momento ha dato il più grande contributo all`inserimento dello strumento nella musica sperimentale occidentale. E` nata nel 1963 a Shanghai dove ha studiato musica e dove si è diplomata al conservatorio. Nella città cinese ha suonato in ensemble tradizionali, ma anche il basso elettrico in un gruppo rock al femminile, prima di trasferirsi in Germania all`inizio degli anni `90. All`inizio si è esibita in un quartetto femminile, formato insieme a sue connazionali, composto unicamente a strumenti della tradizione cinese, ma la sua indole inquieta l`ha presto portata a frequentare gli ambienti della sperimentazione tedesca. E` così che è iniziato un sodalizio con Peter Kowald destinato a durare fino alla scomparsa di quest`ultimo. Il parto più significativo della collaborazione con Kowald è stato il progetto Global Village che comprendeva anche la violinista Gunda Gottschalk. L`unico loro disco, uscito nel 2004 su Free Elephant, e quindi dopo la morte del contrabbassista, alterna alcune piccole suite in trio con altre nelle quali il trio si muta in quartetto per l`aggiunta di Otomo Yoshihide, Jin Hi Kim o Pamela Z. Si tratta di un disco fondamentale che raccoglie registrazioni degli anni 1999-2001, i cui unici difetti consistono nel contenere materiale `inorganico` registrato in vari concerti e nell`essere un disco `postumo`: ben altra dirompenza avrebbe ottenuto un CD registrato in un`unica sessione e pubblicato quando il progetto Global Village era ancora attivo.
L`esordio discografico di Xu Fengxia è targato 1999 ed è avvenuto per merito della prestigiosa FMP. “Difference and Similarity” è un grande disco in solo nel quale, oltre al guzheng, la strumentista si cimenta con altri strumenti a corda: il guqin e il sanxian (quest`ultimo è il corrispettivo cinese dello shamisen); ma nel`occasione ha modo di far emergere, oltre a quelle di eccellente strumentista, compositrice e improvvisatrice, anche le sue notevoli doti vocali.
Nel 2002 ha partecipato al Total Music Meeting di Berlino con The New Flags, un trio comprendente Wolfgang Fuchs e Roger Turner, e la registrazione del concerto è stata pubblicata su disco (su a/l/l). Sempre al Meeting si è esibta con un altro suo progetto, il duo con Wu Wei, un suo connazionale che suona una buona quantità di strumenti tradizionali a corda ed a fiato. Di questo duo non esistono in pratica registrazioni, se si esclude un brano nella raccolta “Total Music Meeting 2002” (sempre su a/l/l).
Fra le altre numerose collaborazioni, tutte di notevole livello, citiamo ancora quelle che hanno raggiunto la meta del prodotto discografico. In duo con il pianista Uwe Oberg ha pubblicato l`ottimo “Looking” nel 2002 su Nurnichtnur. Altro sodalizio importante è quello con il contrabbassista statunitense Joe Fonda: un disco su Leo Records (“Distance” del 2000) e un altro su De Werf (“Separate Realities” del 2004) con aggiunto il sassofonista, clarinettista e fisarmonicista Andrè Goudbeek (entrambi ottimi). L`ultima pubblicazione è una raccolta di canzoni nella quale trova finalmente sfogo quella vena passionale, soprattutto per quanto concerne la voce (una specie di Janis Joplin d`Oriente), già avvertibile in tutti i suoi dischi precedenti. Per i prossimi mesi è atteso un`altra realizzazione in duo, questa volta con il pianista Giselher Smekal, che dovrebbe intitolarsi “Tian Guo”.
La prossima stellina in piattaforma di lancio presso il pubblico `downtown` della Grande Mela sembra proprio essere una suonatrice di guzheng che ha già partecipato al CD “Eye To Ear II” di Fred Frith e che sta suonando un po` con tutti i musicisti di quell`ambiente. Si tratta di Wu Fey e alcuni di voi avranno già avuto modo di saggiarne la disinvoltura durante la terza edizione del BääFest, dove si esibita in solo ed insieme a Cristiana Fraticelli e Carlo Ronchi.



Una delle strumentiste dell`estremo oriente che si è infiltrata all`interno della musica sperimentale occidentale con la sua cetra in tempi precoci è la suonatrice coreana di komungo Jin Hi Kim, che già nel 1990 pubblicò due dischi in Occidente: uno negli Stati Uniti per l`etichetta O.O. Discs ed uno in Germania per la Ear-Rational. A guardarlo superficialmente il komungo assomiglia molto al koto, tanto da far pensare ad un suo fratello coreano, ma nella realtà differisce sostanzialmente da esso, e se una versione coreana del koto esiste va piuttosto individuata nel kayagûm. Il komungo ha solo sei corde e ben sedici ponti fissi, inoltre viene suonato percuotendo le corde con una piccola bacchetta di bambù.

“Sargeng” (EarRational) è un esordio al fulmicotone, e la signora da subito dimostrazione di saperse scegliere i compagni d`avventura mettendo in evidenza nel fronte di copertina un categorico `wiyh Elliott Sharp and Henry Kaiser`. “No World Improvisations”, in duo con Joseph Celli, mette chiarisce poi la propensione di Jim Hi Kim verso una musica che sta a metà strada fra new thing e no wave definibile, adottando il termine utilizzato da lei stessa, come `no world` (l`equazione è: la no world sta alla world music come la no wave stava alla new wave). Nel 1992 esce il grande seguito, “No World (Trio) Improvisations” (O.O. Discs), nel quale ai due si aggiunge un terzo musicista, diverso di brano in brano, che elenco nell`ordine: Adam Plack al didgeridoo, Shelley Hirsch alla voce, Alvin Curran al sintetizzatore, Mor Thiam alle percussioni africane e Malcolm Goldstein al violino (Celli, in linea di massima, si alterna a vari strumenti a fiato). Sempre nel 2002 esce su AsianImprov Records un lavoro collettivo firmato da Mark Izu, purtroppo fuori catalogo, che la vede in formazione assieme a James Newton, Lewis Jordan e Anthony Brown.
Nel biennio 1994-1995 vengono pubblicati due ottimi dischi di duetti: “Komunguitar” e “Komungo `Round The World”. Il primo esce negli USA per la ¿What Next? e la vede scontrarsi con alcuni dei più noti improvvisatori dell`occidente, Elliott Sharp, Derek Bailey, Henry Kaiser, Eugene Chadbourne, Hans Reichel e David First (nel brano con First utilizza una versione dello strumento elettrificata). “Komungo `Round The World”, uscito solo in Corea per la Seoul Records, è invece registrato in compagnia di strumentisti `non occidentali`: il suonatore di didgeridoo Adam Pack, quello di sitar Rahul Sariputura, quello di koto Hideaki Kuribayashi e il percussionista africano Mor Thiam; il disco è ottimo e non c`è nessun paragone con il banale crossover fra culture tentato qualche anno dopo da Wu Man in “Wu Man And Friends” (del quale s`è già detto). Qualche perplessità la nutro invece riguardo a “Living Tones”, un disco di composizioni mirate in cui compare come strumentista solo nel primo brano (per komungo e quartetto d`archi); le composizioni del disco hanno lo scopo di mettere a confronto elementi della tradizione coreana con elementi della tradizione occidentale, ma il tutto riesce un po` scolastico e tedioso. Ancor meno mi sono piaciuti i duetti con il batterista svizzero Fredy Studer, riportati nel “Duos” (For4Eras 1999) di quest`ultimo, mentre notevole è “Komungo”, uscito nel 2001 per O.O. Discs, che presenta una serie di brani per komungo e komungo elettrico, con l`unica eccezione di Jupiter`s Moons (con la voce della coreana Kang Kwon Soon) e Dance Of Meditation (con il tuvalese Kongar-ol Ondar alla voce e il giapponese Shonosuke Okura al tamburo otsuzumi). Fra le altre collaborazioni si segnalano “Synergetics-Phonomanie III” (Leo Records, 1996) di Evan Parker e “Global Village” (Free Elephant, 2004) di Peter Kowald. Numerosi sono infine gli ensemble di cui fa parte che non hanno inciso nulla o solo brani su compilation.



L`ultimo arrivato è il tonkori, uno strumento incredibile che all`apparenza sembra un totem. Si tratta di una cetra tradizionale del Giappone, per l`esattezza della comunità Ainu che vive in un`isola nel nord dell`arcipelago. E` interamente intagliato nel tronco di un albero, ha cinque corde e, a differenza della altre cetre giapponesi che si suonano appoggiate sopra ad un tavolo, ad un tappeto od in grembo, viene imbracciato in una postura che fa sembrare lo strumentista mezzo chitarrista e mezzo mitragliere.

Il tonkori ha raggiunto il pubblico e la stampa occidentali più attenti per merito di un grande musicista: Oki Kano. Oki è il vero figlio di questi anni e non ha avuto necessità di nessun mentore, di nessuna presentazione o raccomandazione, ha aperto una piccola etichetta discografica (Chikar Studio), e un sito internet che fa vendita diretta, ed ha cominciato a pubblicare i suoi dischi facendosi conoscere attraverso la rete ed attraverso una disinvolta pubblicizzazione dei propri lavori. L`esordio discografico è del 1999, con un bellissimo disco di brani tradizionali nel quale viene accompagnato da una grande squadra formata da Kazutoki Umezu e Kiyoshi Suzuki, oltre che dalla splendida voce di Umeko Ando. In seguito, 2001 e 2003, Oki suonerà e produrrà due dischi di questa arzilla vecchietta: “Ihunke” e “Upopo Sanke”. In tutte le sue produziono si viene a riscontrare una concezione modernissima, che sfrutta tutti i mezzi che ha a disposizione per la ricerca di un suono atavico, spesso ambientato per l`utilizzo di registrazioni d`ambiente. Ecco così che anche la canzone in cui la voce viene accompagnata dal solo battito delle mani o dal suono di un temporale acquista un aspetto logico e singolare nello stesso tempo.
“Kamui Kor Nupurpe”, del 2001, annuncia gli interessanti sviluppi futuri. Si tratta di un bel disco folk, con grandi ballate cantate dallo stesso Oki con voce profonda, e con un mood sonoro stranamente `africano`. In realtà , andando bene a vedere, viene fatto uso di molti strumenti appartenenti alla tradizione africana: mbira e tamburi come panlogo, oblente e repeater. L`apertura è addirittura affidata ad una Drum Song. I brani sono ben divisi fra tradizionali riarrangiati e originali. Unica concessione alla modernità , oltre al suono, è una batteria programmata utilizzata in alcune piste. L`album contiene, come scritto poche righe sopra, alcune indicazioni: il talento di Oki e il suo essere, a differenza degli altri nomi fin qui trattati, molto più che un grande strumentista.
“No One`s Land”, del 2002, è un disco che al primo ascolto viene da gettare nel fuoco, al secondo comincia a piacerti e al terzo te ne innamori. Il mood leggero (lo potreste ben suonare alle vostre feste in casa) nasconde inizialmente la sua profondità e la ricchezza di particolari. L`uso di artifizi elettronici è più marcato, ma mai eccessivo o alieno al discorso di base, ed il tutto viene reso ancor più interessante dalla presenza di Abè Barreto Soares, poeta in esilio di East Timor, e da quella della conturbante voce della siberiana Olga Letykai Csonka. Con questa uscita, notare il titolo, Oki si fa portavoce delle minoranze `etniche` (come quella di cui è figlio) e Geneve contiene estratti del discorso alla cerimonia d`apertura per il Gruppo di Lavoro sui Popoli Indigeni tenutosi a Ginevra, alle Nazioni Unite, nel 1997.
Nel 2004 Oki continua a stupire pubblicando un delizioso mini CD che contiene versioni dub di brani tratti dal disco precedente, replicandosi poi in modo meno sorprendente nel 2006. Nel 2005 c`è invece la rilettura della tradizione in “Tonkori”, disco registrato interamente con il solo strumento a corde e contenente in larga parte brani tradizionali.



Consigliati:


“Music Of Nubia” di Hamza El Din (Vanguard, 1964)
Folgorante debutto del musicista nubiano. Il disco è bilanciato fra brani cantati e brani strumentali. In Nubala è presente Sandy Bull al bongo - mentre lo stesso El Din suona anche un altro tamburo: il tar - e in Hoi To Irkil Fagiu c`è Ahmed Abdul-Malik (già con Monk al Five Spot Cafe) al contrabbasso. Questo è senz`altro il disco di El Din con cui partire alla scoperta della sua musica.






“Escalay (The Water Wheel)” di Hamza El Din (Nonesuch, 1971)
Pubblicato sulla prestigiosa Nonesuch Explorer Series, dedicata alla musiche `del mondo`, il disco contiene negli oltre venti minuti della visionaria The Water Whell, il suo masterpiece. Il brano verrà ripreso anche dal Kronos Quartet in “Pieces Of Africa”. In Song with Tar accompagna la sua voce con il solo tamburo. La versione in CD prodotta in Giappone, a differenza di quella americana, conserva la copertina originale.






“Eclipse” di Hamza El Din (Ryko, 1982)
Terzo capitolo fondamentale nella discografia del nubiano. Mickey Hart paga pegno e produce il disco. Oud e voce vengono spesso accompagnati dal battito delle mani e dal dumbek, altro tamburo africano. Your Love Is Ever Young è dedicata alla leggendaria cantante egiziana Om Kolthoum, e ne ricalca lo stile, della quale El Din è sempre stato un fan. Ma il brano migliore è Ollin Arageed, con le note dell`oud a navigare sopra ad un magico tappeto percussivo.






“L`art du `ûd” di Munir Bashir (Ocora, 1971)
E` il primo disco `europeo` di Bashir ed è stato logicamente registrato a Parigi, a conferma dell`interesse che è sempre esistito nel paese transalpino per la musica araba. Il disco contiene otto composizioni-improvvisazioni ricavate nel tessuto della musica `classica` irakena. Dire che si tratta di un acquisto basilare è poca cosa.






“Babylon Mood” di Munir Bechir (Voix de l`Orient, 1974)
Registrazione tipicamente `araba` avvenuta con la supervisione del libanese Farid Abul Kheir. Bechir è accompagnato da un quartetto comprendente il flauto ney, la cetra da tavolo kanoun e vari strumenti a percussione orientali, ma nell`ultimo brano appare anche una sezione orchestrale. Il disco, come detto, mostra il lato più tradizionalmente arabo, ma non disdegna puntate extra come in A Promenade With The Aoud il cui modello si ispira ai raga indiani. Un disco considerato particolare, ed interessantissimo, dagli esperti nella sua discografia.






“Mesopotamia” di Munir Bashir (Le Chant Du Monde, 1987)
Registrato a Baghdad nel 1987, ma per quanto ne so pubblicato soltanto nel 2003, questo è il disco di Bashir che preferisco. Due CD racchiusi in una splendida confezione corredata da un libretto con un`intervista condotta da Laurent Aubert ed un saggio di Simon Jargy (in francese ed inglese), sette brani in completa solitudine, fra i quali i lunghissimi Improvisations An Iraqui Maqams e Nakhil, ed un Arabesque per oud e trio di percussioni (ma anche in Nakhil, seppur non sia riportato nelle note, è possibile udire il suono delle percussioni). Un disco magico nelle sue linee che spesso finiscono per ricordare il flamenco.






“Three Ragas” di Ravi Shankar (World Pacific, 1956)
Questo disco, registrato a Londra nel 1956, rappresenta l`esordio di Ravi Shankar. Incalcolabile è l`influenza che ha esercitato sulla musica occidentale: dal jazz, al minimalismo, al folk, alla psichedelia, al pop... Quindi, indipendentemente dal vostro interesse nei confronti della musica indiana, è un disco che quantomeno dovreste degnare di un ascolto. Accanto a Shankar ci sono Chatur Lal (tabla) e Pradjot Sen (tambura), a rappresentanza del classico trio raga. Il disco (come il seguente “Ragas & Talas”) è stato ristampato in CD nel 2000 dalla Angel Records.






“Rāgas & Tālas” di Ravi Shankar (World Pacific, 1964)
Questo, fra i dischi di Shankar che ho ascoltato, è il mio preferito. La scarna formula a due, il sitar del leader e le tabla di Alla Rakha, getta ulteriore luce sulle qualità di uno strumentista che, oltretutto, appare in forma strepitosa. Rāgas & Tālas, come dire `melodia e ritmo`, perchè il disco è scarnificato a questi due elementi allo stato puro - i Tālas sono cicli ritmici del raga - fino all`estremo di Rupak Tal, bozzetto relativamente breve gestito dal solo Rakha alle tabla.






“A Morning Raga / An Evening Raga” di Ravi Shankar (World Pacific, 1968)
In questo splendido lavoro, ristampato in CD nel 2001 sempre dalla Angel Records, ritorna la formazione a tre, e ai due esecutori-creatori di “Rāgas & Tālas” si unisce Kamala Chakravarty (riportata nelle note come Chakvravarty) al tambura. Questo disco è molto importante, oltrechè per il suo immenso valore artistico, perchè il trio in azione è lo stesso che era uscito tonificato dal bagno di folla effettuato durante il “Monterey International Pop Festival” del 1967.






“China Collage” di Sola & Wu Man (Avant, 1996)
Se esiste una nuova musica per pipa questa è la sua pietra angolare. La voce di Liu Sola è quella di una Yoko Ono post no wave, mentre Wu Man è semplicemente una strumentista mostruosa. Il disco è stato registrato a New York da Robert Musso, è stato prodotto da Bill Laswell ed è uscito per il gruppo Disk Union che, all`epoca, era diretto da John Zorn. Penso che questi siano dati sufficienti ad un ulteriore conferma sugli imput che lo hanno configurato così com`è.






“Music For The Motherless Child” di Martin Simpson & Wu Man (Water Lily Acoustics, 1996)
Chitarrina è anche un sinonimo dell`organo sessuale femminile, non so se `pipa` in Cina riveste popolarmente un ruolo simile a proposito dell`organo maschile, ma se così fosse sarebbe suggestivo dacchè i due strumenti, in questo disco, vivono un`oretta di autentico amplesso. Il disco offre anche un ricongiungimento, via Pacifico, di due strumenti che hanno entrambi origine nei primi liuti arabi e, rispettivamente, nella loro diffusione verso occidente e verso oriente. Le tradizioni folk e blues vengono riproposte con passione e cognizione di causa e la loro evoluzione viene trattata nelle competenti note di Kavichandran Alexander. Come dire `classe e fantasia`, e la versione del vecchio gospel Sometimes I Feel Like A Motherless Child è addirittura commovente.






“Pipa: From A distance” di Wu Man (Naxos World, 2003)
La casa discografica non lascia presagire nulla di buono e fa pensare al classico disco di World Music. In realtà non v`è ombra di ciò e la rassicurante formazione - Wu Man (pipa), Stuart Dempster (trombone, didjeridu e altro), Abel Domingues (chitarre e banjos) e la DJ Tamara Weikel - fuga ogni dubbio già prima dell`ascolto. Il disco si pone più in un`area di confine fra folk, improvvisazione, sperimentazione e rock, con la cinese che usa sullo strumento accorgimenti come l`elettrificazione o lo sfregamento con l`archetto. La presenza di tre compagni così poco definibili e limitabili fa il resto. Un disco delizioso.






“The Moon Rising” di Min Xiao-Fen (Cala Records, 1996)
Destò stupore, quando nel 1997 venne pubblicato “Spring, River, Flower, Moon, Night”, vedere un disco di brani tradizionali per pipa prodotto da Carl Stone e pubblicato nel catalogo della Asphodel, una casa discografica dedita alla diffusione della sperimentazione elettronica urbana. Più sottotono, solo un anno prima, era passato questo esordio licenziato da un piccolo marchio inglese, eppure si tratta di un disco ancor più sconvolgente el suo seguito. La strumentista alterna brani tradizionali e scritture di compositori cinesi contemporanei, alternandosi a pipa e ruan (altro liuto cinese) con tecniche spettacolari e ben poco ortodosse: vibrati, cascate di note e passaggi che sembrano addirittura suonati su una batteria. Ma nella magior parte dei brani è possibile apprezzare anche un profondo lirismo, con punte di diamante in Stone Forest Nocturne e Longing For The Wei River.






“With Six Composers” di Min Xiao-Fen (Avant, 1998)
Disco spettacolare, seppure ostico, in cui la Min si confronta con le partiture di cinque grandi contemporanei della musica cinese: Chen Yi, Hsu Po-Yun, Tan Dun, Bun-Ching Lam e Zhou Long. Completano il CD un brano di Leo Smith e un altro della stessa Min. In C-A-G-E III e nella splendida Green Song la strumentista si cimenta, con ottimi risultati, anche alla voce.






“Viper” di Derek Bailey & Min Xiao Fen (Avant, 1998)
“Viper” è il contraltare sperimentale del “Music For The Motherless Child” registrato dalla rivale Wu Man. Improvvisazione estrema e radicale, e pure ricca di fascino. Pipa e chitarra a confronto, e di fronte ad un mostro dell`improvvisazione qual è Derek Bailey la cinese non dimostra alcuna soggezione e si trova pienamente a proprio agio anche in questa dimensione, completando così una trilogia perfetta (tradizione, composizione contemporanea e improvvisazione).






“Ganryu Island” di Michihiro Sato & John Zorn (Yukon, 1985)
Uscito in vinile per l`etichetta Yukon, questo era potenzialmente il classico disco riservato a pochi eletti. Ma uno dei protagonisti si chiama John Zorn e il disco è stato inevitabilmente ristampato su Tzadik con aggiunta di numerosi brani inediti. Si tratta del duello di due grandi samurai, avvenuto nell`isola di Ganryu, rappresentato in musica, ed è anche il trampolino di lancio per il nome di Michihiro Sato e per lo shamisen verso il pubblico occidentale appassionato di sperimentazione sonora.






“Tamashii no Neiro, Tsugaru-shamisen: Satoh Michihiro no Shigoto” di Michihiro Sato (Waon/PSF, 1993)
Disco più tradizionale del precedente, con brani per solo shamisen che si alternano ad altri in cui è possibile ascoltare anche lo shakuhachi di Yugen Yashita. E` il disco giusto per chi vuole avvicinarsi al suono di questo liuto.






“Tayutayuto Tadayoitamae Kono Furue” di Keiji Haino & Michihiro Sato (PSF, 2004)
Inevitabilmente intriso di elementi della tradizione giapponese, ma anche profondamente blues, questo è uno dei dischi migliori pubblicati da Haino nel nuovo millennio. Sato è altrettanto in forma ed il dialogo fra i due risulta appassionato e appassionante, in una perfetta compenetrazione di forma, manipolazione degli strumenti e tecniche esecutive. In particolare è spesso presente il `classico` ronzio, che però non è chiaro se, e quando, attribuire alla terza corda dello shamisen o a (non) accordature particolari della chitarra.






“Tayutauta” di Yumiko Tanaka (Improvised Music from Japan, 2003)
Esordio in solitudine per la nuova stella dello shamisen. Un disco molto vario, seppur minimale (ma è la natura stessa dello strumento ad essere minimale), che si basa soprattutto sulla grande variazione nelle tecniche con cui avviene l`approccio e su varie manipolazioni dello strumento. Ma nei 10 minuti di Tayuta la strumentista articola una bellissima sequenza che fa pensare alle improvvisazioni per oud. Risonanze, uso di archetti od oggetti, corde e cassa armonica percosse, preparazioni... l`ascolto fa pensare che tutte queste tecniche, e altre ancora, vengano utilizzate dalla strumentista per dare vita a questo affresco multicolore.






“Kitchen Drinkers Art Box: Moso Fluxus” di Kitchen Drinkers / Takashi Nemoto (No Label, 2004)
Questo doppio CD è il frutto di una collaborazione fra le Kitchen Drinkers (la cantante Mikako Mihashi e Yumiko Tanaka) e il disegnatore Takashi Nemoto. Il box di plastica contiene, oltre ai CD, sei stampe con dei collage di Nemoto e altri gadges. I due CD, red e purple, raccolgono 24 + 13 brani registrati in concerto, con le due primedonne affiancate via via dal gotha della musica giapponese: Michiyo Yagi, Otomo Yoshihide, Masahiro Uemura, Kazuhisa Uchihashi.... Fra i titoli v`è anche un rifacimento di We will rock you dei Queen che viene definito `pazzesco`. Il doppio CD è stato citato in numerose playlist, fra le quali quella di Zorn, ma la sua edizione ultralimitata lo rende una chimera per noi occidentali. Sperate in una ristampa o in un colpo gobbo nel settore degli usati.






“Continental Crust” di Yumiko Tanaka & Ivar Grydeland (Sofa, 2005)
In compagnia con il chitarrista norvegese Ivar Grydeland, è uno degli incontri più belli fra una chitarra ed un liuto appartenente alla tradizione orientale. Da parte della giapponese c`è anche un consistente utilizzo della voce e del taishôgoto (specie di koto provvisto di tastiera: www.hogaku.it/strumenti/taishogoto.html). Il disco offre anche la possibilità di scoprire un grande chitarrista, in bilico fra la libertà assoluta di Bailey e quella in qualche modo incanalata di Fahey, rispecchia appieno i protagonisti, alternando momenti relativamente classici ad altri più sperimentali, passaggi quieti ad altri molto `forti`, e ripropone, infine, la classica dicotomia oriente-occidente.






“Eye To Eye” di Kazue Sawai (Republic, 1987)
Questa è un`altra di quelle chimere irraggiungibili, ma è pur sempre sperabile una provvidenziale ristampa. Il disco, con le collaborazioni di Peter Hammill, Sarah Jane Morris, Guy Evans e Robin Williamson, è considerato come uno dei capolavori dell`acid-folk giapponese.






“Ta-Wa-Go” di Kazue Sawai (God Mountain, 1995)
La scelta di segnalare 3 dischi per musicista penalizza sicuramente quelli che sono attivi da più anni e, nel loro caso, rende difficile anche la selezione. Una strumentista come Kazue Sawai andrebbe conosciuta in tutte le sue sfaccettature, e forse è per questo che ho scelto questo disco che è diviso fra bani in solitudine e brani in trio con Junji Hirose (sassofoni più uno strumento autocostruito) e Hoppy Kamiyama (piano preparato e campionatori). Soprattutto nei brani in solo la kotoista mostra tutta la ricchezza della sua tecnica, fatta anche di sfregamenti e colpi nella cassa armonica, oltre al fantasioso lavorio sulle corde.






“Une chance pour l`ombre” di Kazue Sawai, Michel Doneda, Kazuo Imai, Lª Quan Ninh & Tetsu Saitoh (Victo, 2004)
Se vi piace l`improvvisazione radicale acustica questo è uno di quei dischi che non lasciano il tempo che trovano. Cinque favolosi strumentisti, le cui singole strade si sono incrociate più d`una volta, riuniti in questo ensemble stratosferico per il festival di Victoriaville del 2003.






“Crepuscular Music” di Miya Masaoka, Tom Nunn & Gino Robair (Rastascan Records, 1996)
Uno dei primi dischi di Miya Masaoka, insieme al suo koto ci sono le percussioni di Gino Robair e gli strumenti-bricolage di Tom Nunn. Improvvisazione informale ai massimi livelli.






“Monk`s Japanese Folk Song” del Miya Masaoka Trio (Dizim Records, 1997)
Eccellente tributo alla musica di Thelonious Monk da parte di un trio guidato dalla Masaoka e completato da due fra i maggiori esponenti della New Thing: Reggie Workman e Andrew Cyrille. Il disco permette di fare un parallelo fra koto e pianoforte, e lascia intravedere le non comuni possibilità di questo strumento alle prese con un fraseggio jazzistico. Oltre ad alcuni classici di Monk (Japanese Folk Song, Monk`s Mood, Evidence, Epistrophy e un`immancabile `Round Midnight) e alla strepitosa A Shinto “Midniht”, versione mutante di `Round Midnight con Cyrille impegnato su piccole percussioni e Workman su una sega, ci sono anche alcuni titoli originali di Cyrille e della stessa Masaoka. Il disco è uscito nel 1997 per la tedesca Dizim ed è attualmente fuori catalogo, ma con un po` di fortuna riuscite sicuramente a trovarlo.






“Cloud Plate” di Alex Kline, Kaoru, Miya Masaoka & G.E. Stinson (Cryptogramophone, 2005)
Un disco d`improvvisazione in cui sono più importanti le atmosfere create che non i giochi d`abilità dei singoli protagonisti. Molto affascinante.






“Shizuku” di Yagi Michiyo (Tzadik, 1999)
La più agguerrita tra i giovani kotoisti esordisce con un disco in solitudine su Tzadik. E` un disco rivolto al pubblico occidentale e, accanto alle scorribande tipiche dei kotoisti che fanno musica contemporanea, si intravedono delicati notturni dal gusto pianistico. La copertina mostra la tendenza dell`autrice a presentarsi come una `femme fatale` in linea con le autrici più chic della musica contemporanea.






“Yural” di Yagi Michiyo & Paulownia Crush (Baj Records, 2001)
Sette brani composti e arrangiati dal pianista jazz Satoh Masahiko e affidati all`esecuzione di Yagi Michiyo ed al sestetto di kotoisti Paulownia Crush. Un ensemble di koto, quindi, seppure questi si distinguano in tre varietà a seconda del numero delle corde (13, 17 e 20). Delizioso per scrittura, esecuzione e realizzazione, con i brani che passano dalla danza folkeggiante Nahm al romanticismo impressionista di Iberian Sunset, non senza sfiorare le maglie della musica contemporanea e della tradizione giapponese.






“Peek-Ara-Boo” delle Hoahio (Tzadik, 2003)
Il trio guidato da Haco e Yagi Michiyo fa centro pieno con questo terzo disco nel quale le sinewaves di Sachiko M vengono rimpiazzate dalle percussioni di Era Mari. Pop sghembo di altissimo livello che qualcuno ha definito, non impropriamente, come beefheartiano.






“Telemetry Transmission” di Brett Larner (Sparkling Beatnik, 1999)
Per koto e giroscopio. Un ronzio massiccio e continuo nel quale sono comunque apprezzabile una notevole profondità e un`altrettanto notevole variazione di suoni e timbriche. Il disco può essere paragonato ad alcuni lavori per hurdy-gurdy di Haino o O`Rourke. E` comunque un lavoro massiccio consigliabile solo agli ascoltatori più avventurosi e agli inguaribili curiosi.






“Itadakimasu” di Brett Larner (Spool, 2001)
Una serie fantastica di duetti con O`Rourke, Ted Reichman, Samm Bennett, John Shiurba, Braxton, G.E. Stinson, Gianni Gebbia, Taku Sugimoto, Mazzacane Connors e Gino Robair, a dimostrazione della considerazione che il musicista si è conquistato. Oltre a due tipi di koto viene utilizzato anche un guzheng a 21 corde.






“After School Activity” di Brett Larner & Toshimaru Nakamura (Impermanent Recordings, 2003)
Siamo all`estremo opposto rispetto a “Telemetry Transmission”: atmosfere soffuse e largo uso dei silenzi, ma i due dischi condividono comunque un`alta percentuale di rumore.






“Looking” di Uwe Oberg & Xu Fengxia (Nurnichtnur, 2002)
Ecco uno di quei dischi destinati a restare privilegio di pochi, nonostante il suo valore superi di gran lunga quello di un buon 90% del materiale che quotidianamente viene messo in circolazione. Grandi escursioni sulla tastiera e sulle corde di pianoforte e guzheng, ma anche fantastiche cavalcate percussive nella cassa armonica del secondo e l`incredibile voce di Xu Fengxia. E` facile capire perchè Peter Kowald abbia voluto questa eccezionale performer all`interno del suo progetto Global Village.






“Live At The Total Music Meeting 2002, Berlin” dei New Flags (a/l/l, 2003)
Registrato al Total Music Meeting di Berlino, la rassegna organizzata dalla FMP, questo CD propone la straordinaria musicista di origini cinesi Xu Fengxia (guzheng e voce) all`interno del trio New Flags, ch`è completato da Wolfgang Fuchs (clarinetti basso e contrabbasso e sax sopranino) e da Roger Turner con il suo straordinario kit percussivo. L`ottica è quella dell`improvvisazione radicale contemporanea, con una grande intesa e una bella varietà di situazioni che sfruttano le combinazioni offerte dal multistrumentismo di Fuchs, dalla grande varietà del batterismo di Tuner e dagli eccellenti interventi vocali di Xu Fengxia.






“Borderless Songs” di Xu Fengxia (Aliso, 2004)
Questo è un disco piuttosto anomalo e particolare che contiene soprattutto canzoni cantate in vari stili: da quello dell`opera pechinese a quello sciamanico di tuva, e nelle quali è possibile trovare anche altri imput come il blues, il gospel, lo stile scat e il folk occidentale.... Il tutto è comunque ricondotto ad una veste unitaria e molto personale. Oltre alle ottime performance al guzheng ed al sanxian è quindi possibile ascoltare anche la splendida voce dell`artista, con le sue capacità illimitate e l`incredibile varietà di situazioni che riesce a creare. Rispetto ad altri dischi simili si distingue per la sua forza e la sua densità .






“Sargeng” di Jin Hi Kim (Ear-Rational, 1990)
Questo disco, registrato nel 1989, ha la primogenitura per quanto riguarda le registrazioni pubblicate della coreana Jin Hi Kim. L`ingannevole copertina recita `with Elliott Sharp and Henry Kaiser” quando in realtà è `with Elliott Sharp or Henry Kaiser`. Quindi non si tratta di un trio ma di due parti separate suonate in duo con l`uno o con l`altro musicista. Lo stile è orientato chiramente verso l`improvvisazione radicale in bilico fra post free-jazz e no wave. Ottimo.






“Komungo `Round The World” di Jin Hi Kim (Seoul Records, 1994)
Il disco più rappresentativo di quella no-world music già messa a punto in due dischi insieme a Joseph Celli. A duettare con il suo komungo sono nell`occasione il didgeridoo di Adam Plack, le percussioni di Mor Thiam, il sitar di Rahul Sariputura e il koto di Hideaki Kuribayashi (allievo di Kazue Sawai e componente dello String Quartet Of Tokyo).






“Komungo” di Jin Hi Kim (O.O. Discs, 2000)
Solo komungo, in quasi tutti i brani, per quello che è l`abbecedario moderno dello strumento che, in alcune occasioni, è pure di tipo elettrico.






“Hankapuy” di Oki (featuring Umeko Ando) (Chikar Studio, 1999)
Uno splendido esordio con i fiati di Kazutoki Umezu a dare un sapore jazzy. E` possibile ascoltare strumenti particolari come Tonkori e Mukkuri, oltre alla splendida voce di Umeko Ando. I tocchi donati dalle ance di Umezu, i suoni stranianti del mukkuri (suonato sia da Oki che da Umeko Ando) e quelli altrettanto avvolgenti del tonkori creano un`atmosfera veramente magica.






“No One`s Land” di Oki Kano (Chikar Studio, 2002)
Esplosione di colori per un disco di moderna musica pop. Il Tonkori non è presente in tutti i brani e comunque è relegato ai margini da una strumentazione abbastanza consistente e dall`utilizzo che viene fatto di accorgimenti e ritmi elettronici. E` da questa pagina che nascono le successive digressioni dub.






“Tonkori” di Oki (Chikar Studio, 2005)
Ritorno alla `tradizione` con questo disco per solo Tonkori. Numerosi brani tradizionali, interpretati con molta poesia, ma anche qualche improvvisazione e qualche scrittura originale. E` il disco che offre la panoramica più a fuoco sullo strumento e sulle tecniche con cui viene utilizzato.





Siti web:

Strumenti asiatici: www.asza.com
Breve trattato sulla musica araba: www.arab.it/arte/musica_araba
Oud: www.oudcafe.com
Hamza El Din: www.hamzaeldin.com
Munir Bashir: www.munirbashir.com (questo sito annunciato da tempo al momento della pubblicazione di questo articolo non è ancora disponibile)
Maqam (specializzato in musica araba): http://www.maqam.com/
Sitar e altri strumenti dell`India: www.krishnadas.it/Strumenti%20musicali%20dell'India.htm
Sitar e musica occidentale: www.icce.rug.nl/~soundscapes/VOLUME04/West_meets_east.shtm
Ravi Shankar: www.ravishankar.org
Angel Records: www.angelrecords.com
Wu Man: wumanpipa.org
Min Xiao-Fen: www.bluepipa.org
Shamisen: www.hogaku.it/strumenti/shamisen.html
Satoh Michihiro: www.japanimprov.com/satoh www.tsugaru-michihiro.com
Yumiko Tanaka: www.japanimprov.com/ytanaka
Koto: www.hogaku.it/strumenti/so.html
Kazue Sawai: www.soukyokuin.com
Miya Masaoka: www.miyamasaoka.com
Michiyo Yagi: www.japanimprov.com/myagi/
Brett Larner: www.japanimprov.com/blarner/
Strumenti musicali della Cina: www.philmultic.com/home/instruments/
Xu Fengxia: www.xufengxia-music.de
Strumenti musicali della Corea: www.corea.it/musica_tradizionale.htm
Jin Hi Kim: www.jinhikim.com kalvos.org/jinhikim.html
Tonkori: www.hogaku.it/glossario/t/tonkori.html
Oki: www.tonkori.com
Improvised Music from Japan: www.japanimprov.com
Far Side Music (specializzato in musiche orientali): www.farsidemusic.com/
Squidco (specializzato in musiche sperimentali): www.squidco.com/miva/merchant.mv



ANGOLI MUSICALI 2016  
  Torna al Menù Principale
 Archivio dell'anno 2008 ...

Christian Rainer (intervista)  

ghédalia tazartès  

corde d'oriente  

Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza  

Yannis Kyriakides / Nikos Veliotis  

2006  

Sandro Perri (Polmo Polpo) - Intervista  

Gianni Mimmo / Amirani (intervista)  

St.ride - Intervista a Maurizio Gusmerini  

Ricardo Villalobos  

Colleen (intervista)  

BääFest 4  

Alio Die (intervista)