Velocità d’esecuzione, precisione, limpidezza, pulizia dei suoni e libertà armonica, il tutto associato a un gruppo con contrabbasso, batteria e sax alto, fanno pensare ai trii guidati da Ornette Coleman intorno alla metà degli anni ’60 (quello di brani frizzanti come Zig Zag). In buona parte ciò è dovuto ai fraseggi e alle timbriche di Tapiwa Svosve, che potrebbe sembrare un Coleman-dipedente, senonché è proprio il sassofonista a scozzare le carte fin dal primo brano quando, a un certo punto, spinge lo strumento verso sonorità tenorili. In Tuain, con la voce del sax che vira verso una specie di solfeggio evocativo, la personalità del trio si fa più indipendente. In Chy i tre pigiano con ancor più decisione su questo tasto, accentuando certe pastosità ellingtoniane. Il clou in tale direzione viene toccato da Mmoosh, un brano dove gli sprazzi di melodia sono brevi frammenti, tali e quali a piccole oasi perse in spazi di vuoto e di silenzio. Sono però le sarabande percussive di Dji-ut e Kheretem, a memoria della Chicago più nera (Andrew Hill, Art Ensemble …), a fare la differenza. È qui che si può sentire un enorme Vincent Glanzmann, un batterista in grado di reggere sulle proprie spalle un intero reggimento.
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