absinth records    
di e. g. (no ©)




«Sulle sorti di Zappa e Ponty presto si distenderà in tutta la sua grigia lunghezza l`ombra del professionismo: avremmo preferito che al termine dell`appassionante avventura, mentre i due ancora si tergevano il sudore, King Kong avesse con live fermezza serrato il palmo della propria mano...» (dalla recensione a “King Kong” di Jean-Luc Ponty su “Musica da non consumare” di Riccardo Bertoncelli e Franco Bolelli)



Non molto tempo addietro Bruno Dorella mi spiegava che Berlino sta cambiando, lentamente ma inesorabilmente, e fra qualche anno sarà nè più nè meno una delle tante città europee. L`alcova delle grandi possibilità che negli anni passati ha dato rifugio a così tanti artisti, permettendo quelle mescolanze uniche in grado di accendere le scintille della creatività si sta bacando. La città che ci ha fatto sognare si sta normalizzando e probabilmente non ci sarà nessun King Kong a stringere la propria mano....
Prima che la polvere ricopra tutto con la sua inesorabile azione, e in attesa che i nostri nipotini sgranino gli occhi meravigliati di fronte all`ennesima riscoperta, cerchiamo di fare luce su uno dei più interessanti marchi discografici prodotti dalla Berlino di questi anni impazienti: la Absinth Records gestita da Marcus Liebig, una specie di Bernard Stollman (1) tedesco. E la Absinth sembra rappresentare per Berlino proprio ciò che la ESP-Disk rappresentò negli anni Sessanta per New York, talmente affini appaiono le caratteristiche delle due piccole etichette: confezioni artigianali, spazio ai fermenti underground più innovativi e completo controllo da parte dei musicisti sulla musica da pubblicare. Ma, soprattutto, diciamo che la Absinth rappresenta la sperimentazione musicale nella sua città e nella sua epoca allo stesso modo in cui la ESP lo faceva nella New York degli anni '60. L`etichetta newyorchese, a onor del vero, occupava uno spettro di generi ben più ampio di quella tedesca, raccogliendo anche le istanze del rock e del folk più sommersi ai quali l`etichetta tedesca è estranea se non (come vedremo) nei richiami di qualche musicista, ma va considerato che la capitale tedesca non presenta oggi una situazione particolarmente florida per quanto riguarda l`avant-rock e/o l`avant-folk e che inoltre oggi esistono molte più etichette indipendenti e quindi la produzione è in generale molto più settorializzata.
Naturalmente cambiano i mezzi: per la ESP erano i dischi in vinile mentre per la Absinth sono i compact disc (ma l`ultima uscita è stata edita anche in una piccola quantità di vinili; un esperimento che, se ci sarà tempo e vita, potrebbe portare ad interessanti sviluppi).
Questi CD sono generalmente confezionati in buste di cartoncino di grandezza 20x20 cm (leggermente maggiore dei vecchi 45 giri), rigorosamente fatte mano (cuciture comprese) e vengono distribuiti in copie numerate e limitate al numero di 300 o 500. E, comunque, ogni confezione presenta soluzioni diverse. Fanno eccezione la serie “Diametral Acoustics”, per la quale sono al momento stati realizzati due CD in cartoncino 16x14,5 cm, un DVD nella classica scatola di plastica rigida e l`ultima pubblicazione (“Berlin Electronics”) che inaugura il formato finora inedito 20x14,5 cm. Si tratta chiaramente di quelli che a suo tempo abbiamo definito come dischi da boutique; e la loro reperibilità è in effetti problematica e limitata a pochi distributori superspecializzati od all'etichetta stessa.
La prima uscita è del 2003 e dà inizio ad una serie che chiamerò arbitrariamente `Ja Berlin` a ricordo dello storico “No New York”. In effetti ci sono dei punti di contatto con quel disco, ad iniziare dal fatto che pur trattandosi di lavori attribuibili a più artisti non si tratta affatto di compilazioni ma piuttosto di split a quattro mani. La serie `Ja Berlin` è composta da cinque confezioni: “Berlin Reeds”, “Berlin Strings”, “Berlin Drums”, “Berlin Electronics” e, eccezione che conferma la regola, “London Strings”. Ogni confezione contiene 4 CD-R a tre pollici, uno per ogni musicista coinvolto, che presentano lavori di breve durata perfettamente compiuti.
In “Berlin Reeds” si possono ascoltare le improvvisazioni di Alessandro Bosetti (sax soprano), Gregor Hotz (sax basso), Kai Fagaschinski (clarinetto) e Rudi Mahall (clarinetto basso). Oltre al differente strumento utilizzato i quattro mettono in piazza quattro modi diversi di intendere l`improvvisazione. Bosetti, in un pezzo significativamente intitolato Unplayed Saxophone, esce allo scoperto con quella specie di autismo sonoro che gli ha tirato addosso tante critiche e che pure trovo affascinante nel suo rifiuto, interiore ancor prima che manifesto, di tirar fuori dallo strumento una qualsivoglia nota musicale; nelle sue mani lo strumento musicale è spogliato dalla sua aura di nobiltà e ricondotto quasi ad un ruolo di utensileria. Fagaschinski, dal suo canto, risponde da una posizione intermedia dove si alternano al rumore sprazzi di melodia, con rilevanti salti di tono e con un vasto utilizzo dei silenzi e/o di suoni semplicemente sussurrati che fanno sembrare il tutto come sospeso nel vuoto. Gregor Hotz sembra più legato a concetti di circolarità , attraverso i quali gli stessi Bosetti e Fagaschinski sono sicuramente passati, e lo stesso utilizzo dei silenzi, al pari di quello dei suoni, appare come più compattato. E la compattezza non difetta certo a Mahall che, pur non disdegnando una microfonazione che non lascia fuori dalla finestra elementi estranei alla `musica pura`, appare il più classicamente impostato fra i quattro, con fraseggi di chiara marca `new thing` che crescono fino al parossismo delle battute finali.
Nel secondo numero della serie, “Berlin Strings” (2003), il concetto di corde è inteso nel senso più lato possibile, fino ad includere il piano suonato nell`interno della cassa armonica da Andrea Neumann. Proprio quella della Neumann, accanto a quella del chitarrista Serge Baghdassarians, si profila come la parte più interessante. Entrambi, infatti, affiancano l`azione sullo strumento con quella sul mixer, giungendo ad una sintesi paraelettronica straordinaria, per impatto e ambiguità . Cerco di misurare i valori con il metro dell`intrigo e della singolarità , chè mi sarebbe impossibile fare distinzioni nette di qualità e di merito. Se così facessi, utilizzando criteri molto personali, la palma del migliore andrebbe a Olaf Rupp. Il suo Metal Peace, diviso in nove parti, è un brano dall`impostazione piuttosto classica, e pure straordinario. Provate ad immaginare John McLaughlin, quello di “My Goal`s Beyond”, colpito dal virus Derek Bailey mentre sta facendo un provino per entrare nei Bad Brains. Non rientra nel vostro campo visivo, vero? Neppure nel mio, e proprio per questo lo trovo plausibile!?!! Michael Renkel, che si limita all`uso di una chitarra `preparata` e di uno zither, è il più quieto della combriccola, e il suo universo soffuso e pregno di silenzi può ricordare quello di Kai Fagaschinski, con il quale peraltro all`epoca collaborava nel duo Rebecca. I suoi delicati arpeggi sulla chitarra, supportati da microscopiche schegge di rumore, anticipano molto di ciò che ancora oggi viene fatto nel settore dell`elettroacustica.
Ecco che “Berlin Drums” (2004) chiude un trittico perfetto, mostrando come da una parte si è diversificato l`approccio dei singoli batteristi mentre dall`altra c`è stato un avvicinamento fra l`uso della batteria e quello di tutti gli altri strumenti. Sentite a tal proposito i bordoni di Burkhard Beins! Lo stesso Tony Buck, che non è certo noto per una estremizzazione spinta del proprio linguaggio, e pur prendendo le distanze dalla staticità di Beins, non disdegna di associare ai `trilli` sulle percussioni delle nebbie più incorporee o guaiti `ancestrali`. La sua performance è davvero eccellente e segue una logica compositiva ineccepibile. Electric Bongo Bongo di Steve Heather spiega già nel titolo la sua propensione a coniugare elettricità e tribalismo, riconducendo comunque sempre il tutto ad una visione circolare, minimale, ripetitiva e ipnotica del suono. Eric Schaefer è il più classicamente jazzy del lotto, seppure non proprio ortodosso e memore del terremoto Lovens, ed è quello che più si avvicina all`originaria idea di break.
Il quarto numero della serie esce dalla logica `Ja Berlin` e indaga sulle “London Strings” (2004). La prima cosa che balza all`occhio è l`enorme differenza con “Berlin Strings”, laddove quello era principalmente incentrato sui chitarristi in questo non ve n`è traccia: solo due violinisti, un arpista e un contrabbassista. In secondo luogo è apprezzabile un`attitudine musicale meno estrema rispetto a quanto viene proposto nella capitale tedesca. Il nome più `prestigioso` della raccolta è quello del violinista Phil Durrant che, nel corso di un pezzo diviso in due movimenti, ribadisce le già note influenze subite da parte della classica contemporanea. Trovo più interessante Angharard Davies, anche lei violinista, che sottopone lo strumento a preparazione estraendone continuum di suoni (soffi) flautati e/o riconducibili alle logiche dei `long string instruments`. I più interessanti sono comunque gli altri due brani: Perdereau di Rhodri Davies, composizione per un arpa e otto mani, e For John Entwistle 1944-2002 di Mark Wastell (sorprendentemente dedicata al bassista degli Who). Nel pezzo di Rhodri Davies (gli altri tre performer sono John Wall, Taku Unami e Jonathan Dunstan) ad oscuri cluster iniziali, dalle profonde risonanze, fanno seguito dei bordoni ciclici ottenuti utilizzando uno o più e-bow. Altrettanto oscuro, un autentico requiem per contrabbasso e coppe risuonanti nepalesi, è il brano di Wastel. Rispetto alla maggior parte dei brani presenti nella serie berlinese si notano minor forza d`impatto, urgenza e frenesia, mentre una maggiore attenzione sembra concessa alle rifiniture. Quasi tutti i brani rappresentano delle dediche: di Entwistle s`è già detto, laddove di Angharard Davies è dedicata al maestro violinista Charles-Andrè Linale e Perdereau è dedicata al giornalista francese Jacques Perdereau.
Dopo un periodo di silenzio, dal 2004 al 2008, la serie `Ja Berlin` riprende con quella “Berlin Electronics” (2008) recentemente incensata fra le nostre recensioni. Si tratta di un lavoro importante perchè fa un po' il punto su uno degli elementi fondamentali presenti nella Berlino musicale di questi anni, cioè sull'elaborazione elettronica. Se da una parte viene ribadito che la Absinth intende occuparsi delle frange più estreme della sperimentazione, dall'altra ci sono timidissimi segni di cambiamento per quanto riguarda i mezzi utilizzati, se oltre alla solita dose di stampe in CD-R è stata effettuata una tiratura ancor limitatissima in vinile. Questa nuova politica sembra per il momento destinata a continuare, per questo Settembre (2008) è infatti annunciata la prossima uscita - un solo di Andrea Neumann - che verrà proposta sia in CD sia in vinile (ma solo 13 copie, da buon tedesco Liebig non intende rischiare...).
Montaggi, concreta, elettroacustica... in “Berlin Electronics” Ignaz Schick, Gilles Aubry, Annette Krebs e Andrea Ermke mostrano inequivocabilmente il quadro di una città ancora artisticamente attiva e maldisposta a rinunciare al ruolo guida avuto in questi anni. Una raccolta davvero preziosa per la quale rimando al nostro spazio recensioni.
Terminato di dire della serie `Ja Berlin` si passa ai normali CD audio, un gruppo di lavori che per comodità divido nelle tipologie `Solo` ed `Ensemble`. Fra i primi sono “Sind” (2007) di Axel Dörner, “Disco Prova” (2007) di Burkhard Beins e “Amoungst English Men (for piano, tam tam and tubular bell)” (2006) di Mark Wastell. Fra i secondi “Zur Stabilen Stützung Eines Körpers Ist Es Notwendig Daß Er Mindestens Drei Auflagenpunkte Hat Die Nicht In Einer geraden Liegen” (2006) di Serge Baghdassarians, Boris Baltschun & Burkhard Beins, “Activity Center & Phil Minton” (2005) di Phil Minton, Michael Renkel & Burkhard Beins, l`eponimo CD di “Axel Dörner & Robin Hayward” (2004) e “Breath On The Floor” (2005) di Alessandro Bosetti & Michel Doneda.
“Sind” di Axel Dörner è uno di quei dischi mal definibili se non con un categorico `indispensabile`... 22 piste per una durata complessiva di 63 minuti vanno a dare una sistemazione inappuntabile al mood di questo incredibile musicista. Dörner è in grado di dare vita ad uno dei suoni più limpidi è belli che si siano mai ascoltati... questo se solo lasciasse suonare la sua tromba. Ma il suo atteggiamento è quello di un marziano che, capitato casualmente sulla terra, si trova una tromba fra le mani e non riesce ad intenderne l`utilizzo: ci soffia dentro ricavandone solo degli sbuffi, ci picchietta sopra, la guarda in silenzio e con stupore domandandosi a che cazzo serve... Dörner e la sua tromba sono come due amanti che, dopo aver sperimentato tutte le posizioni canoniche, decidono di restare insieme e cercano di vincere la noia attraverso le posizioni più strane e stravaganti... la normalità viene così rispolverata solo in occasioni promiscue quali possono essere dei `triangoli` o altre situazioni collettive. Quello che più stupisce, comunque, è come la musica del trombettista riesca a mantenere dei connotati molto poetici nonostante questo uso massivo del rumore.
“Amoungst English Men” è una composizione di oltre 33 minuti che Mark Wastell ha scritto per una strumentazione comprendente piano, tam tam e campane tubulari. Il tutto è avvicinabile al brano proposto da Wastell nella raccolta “London Strings”, con il piano suonato nei toni più bassi in modo greve e le sottolineature altrettanto oscure dei tam tam, in uno sviluppo palesemente ciclico.
“Disco Prova” (2007) di Burkhard Beins è il CD più stupefacente della terna, in quanto l`autore utilizza materiali che possono far parte di un set a percussione solo in due dei sette titoli (Reel e Slope). Per il resto Beins è dedito alla manipolazione di materiali ed oggetti vari, con il curioso caso dell`ultimo brano (appropriatamente intitolato For Ian Curtis) dove ad essere manipolati sono alcuni vinili dei Joy Division. Questa scelta può far già pensare alla realtà di un disco tendenzialmente oscuro, con un`attitudine che è però orientata verso i microsuoni.
I dischi dedicati ai lavori d`insieme godono in buona parte della presenza di artisti già trattati nei precedenti lavori, ma presentano collaborazioni inedite e specifiche assumendo quindi un importanza fondamentale per gli appassionati di quella musica improvvisata che, come è logico, è legata a doppio filo alla particolarità delle combinazioni strumentali proposte.
Axel Dörner e il suonatore di tuba Robin Hayward si presentano con una registrazione che li vede per la prima volta faccia a faccia senza la presenza di altri incomodi. La stessa combinazione tromba - tuba dovrebbe essere inedita, o almeno lo è nella misura in cui i due strumentisti lavorano alla completa disarticolazione del loro strumento e alla strutturazione di un dialogo essenzialmente onomatopeico. E il lirismo di cui s`è detto a proposito del Dörner in solo è riproposto in tutta la sua incantevole bellezza, con punta di diamante nel quarto brano (Werchlich), dove ai due ottoni viene lasciata qualche breve chance di esprimersi nel loro linguaggio usuale.
Il tandem Bosetti - Doneda può apparire nelle premesse più risaputo, trattandosi di un duo di sassofoni, e in effetti all`ascolto risulta meno stupefacente dell`altro. Si tratta in ogni caso di un`altra collaborazione inedita su disco, e giunge a coronamento di un`evoluzione parallela che ha portato i due strumentisti da un generico lacyismo ad una sintesi che radicalizza la disarticolazione dello strumento e la ricerca sulla spazialità nella diffusione del suono. Bosetti, e in parte anche Doneda, paiono comunque più disincantati rispetto al lirismo dell`accoppiata precedente, e il loro approccio mi giunge più freddo e tecnico.
I due dischi in trio ruotano entrambi intorno alle percussioni di Burkhard Beins e comprendono la più singolare collaborazione con Renkel e Minton e la più tipicamente `berlinese` ed elettroacustica prova con Baghdassarians e Baltschun. Se apprezzate la voce di Minton e le sue evoluzioni meno prossime alla forma canzone, comprate pure il CD su Absinth a scatola chiusa. Gli interventi strumentali, e pure quelli vocali, sono rarefatti ma estremamente incisivi, tanto che l`insieme finisce con il suonare `pieno` in giusta misura. I vocalizzi di Minton, poi, seguono percorsi lontani sia dal normale cantautorato (anche quello associato ai gruppi rock) sia dai `ghirigori impostati` di figure pur apprezzabili quali il compianto Demetrio Stratos. Direi che spesso Minton riesce a trasformare i suoi vocalizzi in autentici suoni strumentali evitando proprio il giochetto consunto, cosa che invece non riesce a molti dei suoi colleghi, di imitare strumenti già noti. Non sempre colpisce nel segno ma comunque il suo `linguaggio`, fra articolazione primitiva e lignaggio manicomiale, riesce sempre ad essere terribilmente inquietante. La suddivisione dei quasi cinquanta minuti del disco in sei brani è una garanzia sulla varietà di atmosfere affrontata dai tre.
Eccellente è anche la prova del trio Beins, Baghdassarians e Baltschun, con percussioni, reotrop (un qualche sistema di manipolazione del suono sul quale non sono riuscito a scoprire nulla) e campionatore. Il CD, risolto nel numero di due lunghe improvvisazioni per un minutaggio di circa 35 minuti, suona sufficientemente fluido, oscuro e ipnotico, pur evitando con cura qualsivoglia deriva dark-ambient, e il trio va ad occupare un posto di primo piano fra gli ensemble elettro-elettronici di questi ultimi anni.
La serie “Diametral Acoustics” è rappresentata al momento da tre uscite dedicate a progetti specifici di Michael Renkel: i CD “Errorkoerper III” (2006) in solo e “Phono_phono” (2007) in trio con Sabine Vogel e Magda Mayas ed il DVD “7ft._Konka” (2006) insieme all`artista visuale Sonja Bender. Nel disco in solo (chitarra elettrica, processore fx e calcolatore portatile) si snoda un unico brano di oltre settanta minuti nel quale il chitarrista sfugge con sicurezza i fenneszismi di maniera che attanagliano molti lavori simili. Si tratta di un brano affascinante che, unico difetto, avrebbe forse necessitato di qualche leggero taglio. Nel DVD è possibile apprezzare un musicista (chitarra e trattamenti elettronici in tempo reale) dal suono stranamente elettrico e metropolitano, con passaggi prossimi alla techno ed un flash chitarristico molto anni Settanta. Musica ed immagini paiono sincronizzate in brevi sequenze ripetitive e, nonostante non sia mai stato un appassionato di queste opere audio-visive, mi sembra di poter afferrare che si tratta di un buon lavoro. Sicuramente ottimo è il trio d`improvvisazione con Sabine Vogel (flauto ed elettroniche) e Magda Mayas (piano e synth). Si tratta, a differenza del DVD, di improvvisazione morbida che stupisce soprattutto nei piccoli giochi d`incastro fra i vari interventi strumentali, quasi in un continuo `call & response` a tre voci.
Queste, in breve, sono le caratteristiche e le pubblicazioni (non troppo numerose) dell`interessante marchio berlinese, il cui catalogo consiglio a tutti di collezionare e tenerselo ben stretto.
Attendiamo adesso con impazienza il solo di Andrea Neumann e speriamo che al momento opportuno, e ribaltando ogni previsione, la mano di King Kong si stringa benevola a congelare questo affascinante momento della storia musicale più recente.

(1) il gestore della ESP-Disk



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