folk-progressive (e dintorni)    di e. g. (no ©)




animal_collective
Il continuo rigenerarsi della musica folk, a livelli più o meno underground, è un dato di fatto inconfutabile e proprio in questi anni siamo testimoni di una fioritura che, sia per quantità sia per varietà , ha ben pochi precedenti nella storia recente della musica. Si tratta di un boom talmente consistente da far pensare a quello del folk progressive, e numerosi sono i punti di contatto fra questo `nuovo` folk e quel viavai che, fra la fine degli anni sessanta e la prima metà degli anni Settanta, si manifestò in Inghilterra e si propagò come un morbo infettante fino a galvanizzare quasi tutti gli appassionati di musica popolare. Chiaramente vi sono anche altri elementi - quali la psichedelia californiana, le tradizioni dell`estremo nord europeo e i raga di John Fahey - che concorrono alla definizione di questo `nu folk`. E` anche normale che, oggi come allora, non tutto ciò che viene proposto sia oro colato, e una visione più critica di questo `nuovo` processo creativouna_delle_prime_produzioni_di_Joe_Boyd sarebbe senz`altro gradita, ma l`importanza di un movimento così spontaneo e genuino, nato e cresciuto ai margini del (se non in contrapposizione con il) music business (1), è indubbiamente da valorizzare nel suo insieme.
Una prerogativa qualificante di questo nu folk è l`interesse manifestato nei suoi confronti dai musicisti di area sperimentale che, non in maniera infrequente, hanno anche partecipato direttamente alla sua crescita e alla sua affermazione (Loren Chasse con The Blithe Sons, Jason Ajemian con i Born Heller, Christof Migone nel duo con Veda Hille... gli stessi David Mahler e Larry Polansky del recente “Too Late”). Si tratta di una marea montante che trascina con se artisti esteticamente distanti fra se ma, comunque, riconducibili alla comune idea di dare una lettura corrente della tradizione folk: è questo che, ben più forte delle differenze, unisce nomi come Animal Collective, Devendra Banhart, Vetiver, Taurpis Tula, Fursaxa, Matt Valentine, Iditarod, Black Forest / Black Sea, PG Six, Charalambides, Six Organs Of Admittance... ed evito di fare un interminabile elenco, che sarebbe comunque largamente incompleto, di un mondo in continuo movimento.

Joe_BoydMi sembra quindi opportuno, in attesa di una buonanima che abbia voglia e tempo per addentrarsi nel labirinto tracciato dal `nu folk`, cercare di riscoprire le tracce (ormai abbastanza definite) lasciate da quegli antesignani che, quasi quarant`anni fa, arsero i postumi della sbornia derivante dagli eccessi della `swingin` london`. Mi sembra opportuno, questo viaggio a ritroso, anche perchè la conoscenza del passato può, se non altro, lasciar capire meglio il presente e quanto di valido esso offre veramente.
La rianimazione della tradizione folk, in realtà , non fu un fenomeno prettamente inglese:
in Irlanda e Bretagna vi furono artisti come Tir Na Nog, Bothy Band, Gilbert O'Sullivan, Mellow Candle, Horslips, Planxty, Christy Moore (il suo “Ride On” del 1984 è un disco, a dir poco, emozionante), Alan Stivel e Dan Arbras;
negli Stati Uniti il cantautorato folksy ebbe larga diffusione e la stessa psichedelia sorse su un substrato folk e blues (che poi altro non era che la musica folk dei neri);
la psichedelia giapponese aveva in egual misura radici nella tradizione popolare di quel paese;
nella stessa Italia vi furono numerosi cantautori, come Angelo Branduardi, più gruppi come la Nuova Compagnia di Canto Popolare e il Canzoniere del Lazio, con la sua derivazione Carnascialia, quali elementi in grado di destare il maggior interesse... senza dimenticare i Saint Just di Jane Sorrenti che si allineavano perfettamente al neo-movimento del folk inglese.
folk_progressive_italianoMa il folk inglese aveva qualcosa di più, e di diverso, da quello degli altri paesi, qualcosa che potremmo individuare nella capacità di aprirsi ad altre tradizioni, di allargare i propri confini e di sperimentare nuove soluzioni in una specie di universalità che il folk degli altri paesi non riuscì mai a raggiungere. Per questo, per non confondere il folk inglese con quello che in concomitanza si faceva in altri lidi, ho scelto di chiamarlo `folk progessive`, e anche perchè definizioni da sempre utilizzate, come folk-rock, folk revival e folk psichedelico, mi sembrano limitate e limitanti. Sono definizioni che si possono applicare benissimo anche al folk di altri paesi e che non racchiudono l`essenza complessiva del folk inglese, perchè esso non fu tutto un fenomeno di revival, non tutto si contaminò con il rock e non tutto ebbe carattere lisergico. Il progressive (2), invece, è un fenomeno prettamente inglese e il folk di quegli anni ne condivideva in pieno la tendenza alla contaminazione, al superamento degli steccati, e gli intrecci fra i due mondi sono innumerevoli:
dalla tendenza di Genesis e King Crimson (ma anche del Peter Hammil solista) ad affrontare canoni tipicamente folk alla comune genesi di molti dei musicisti coinvolti nei due ambiti (negli Strawbs militarono sia Sandy Denny sia Rick Wakeman, la prima sarà poi cantante dei grandi Fairport Convention e il secondo tastierista degli Yes);
dai Comus, che furono un gruppo tipicamente (folk) progressive, ai Pink Floyd che pencolarono a lungo fra tendenza progressive e tendenza folk.
Nella stessa Italia, che al pari dell`Inghilterra ebbe un forte movimento progressive, il folk si contaminò con questo a più riprese, vedi i Carnascialia, dove cantava anche Demetrio Stratos, oppure Alan Sorrenti e gli stessi Saint Just.

Davy_GrahamFra i prodromi che portarono alla nascita del folk progressive va considerata la nascita di un solido movimento jazz e blues inglese, che si attivò fin dagli anni Cinquanta e finì per contaminarsi con il rock raggiungendo una grande popolarità presso il pubblico più giovane. Il passaggio dal jazz e dal blues alla rivisitazione creativa del patrimonio folcloristico è più facile di quanto si possa pensare. Davy Graham, uno dei padri della rinascita del folk inglese, per esempio, aveva suonato anche con i bluesmen Alexis Korner e John Myall.
Un secondo elemento di svolta è rappresentato dal notorio concerto di Bob Dylan al festival di Newport, durante l`edizione del 1965, quando la sua decisione di dare una voce elettrica (e rock) al folk, decisione destinata a cambiare il volto della musica, causò uno scangeo. Quel concerto è unanimemente riconosciuto come uno degli `incidenti` più importanti, fra quelli accaduti alla musica nella seconda metà del secolo scorso, e più influenti nella determinazione di molti nuovi valori estetici.
Lo sbarco in Inghilterra della contestazione hippy, portata anche da artisti come Donovan che effettuarono dei tour negli USA della controcultura, e delle filosofie orientali in generale, anche per merito delle forti comunità indiane presenti nel paese, diede sicuramente un grande impulso alla ricerca di nuovi orizzonti armonico-melodici e di nuovi impasti strumentali.
Non dobbiamo infine dimenticare Joe Boyd - agitatore, organizzatore, produttore, tecnico, talent scout, discografico... - che giunse a Londra, dagli Stati Uniti, fresco della partecipazione al festival di Newport del 1965. Boyd, che era stato inviato dalla Elektra come responsabile dell`ufficio londinese, aprì in città l`UFO Club, mitico locale dove si sperimentarono i primi spettacoli multimediali della nascente psichedelia inglese. Bob_Dylan_Festival_di_Newport_1965La sua permanenza in Inghilterra è costellata da intuizioni geniali e scoperte sensazionali e, seppur non sempre impeccabile (come d`altronde tutti al mondo), è stato sicuramente uno degli artefici cruciali nello sviluppo che ebbe quella scena e nel modo in cui fu indirizzata.
Tutto questo insieme di fattori confluì in una musica tutt`altro che omogenea: un ventaglio di proposte differenti per stile, valori estetici e strumentazioni utilizzate. La stessa tradizione popolare che veniva in parte recuperata, aveva un`estensione smisurata, e una canzone del periodo elisabettiano non assomigliava affatto a quelle che si suonavano nelle bettole dell`Ottocento. Nel calderone che ne derivò, una vera esplosione di gruppi, cantautori e tendenze, è possibile trovare di tutto: dalla regressione rinascimentale - se non medievale - degli Amazing Blondel e dei primi Magna Carta (il cui nome deriva dal trattato che nel 1215 diede inizio alla storia inglese) al più leggero country folk di Lindisfarne e Matthews Southern Comfort (enorme successo ebbe la loro versione della Woodstock di Joni Mitchell); dalle divagazioni prettamente progressive di Jan Dukes De Grey e Barclay James Harvest a quelle più cantautorali di Cat Stevens, Al le_tre_muse_del_folk_progressive_Shirley_Collins_Sandy_Denny_Jacqui_McSheeStewart e Ralph McTell; dai fuochi fatui accesi dai Gryphon a quelli tardivi degli Spriguns Of Tolgus; dal folk ordinario, ma ben congegnato, dei Dando Shaft a quello che entra di soppianto nella musica di gruppi e musicisti sicuramente non definibili come folk, quali Pete Brown & Piblokto, Traffic, King Crimson, Tyrannosaurus Rex, Tea & Symphony, Jethro Tull, Small Faces, Terry Reid, Robert Calvert, Family, Genesis, Van Morrison e Peter Hammill. Fra le note più singolari vi furono i Kaleidoscope, che in un secondo tempo cambiarono nome in Fairfield Parlour, un gruppo pop psichedelico che già allora inseriva nella propria musica un immaginario ripreso dalla tradizione del folk scandinavo.
Accanto ad un gruppo come gli Strawbs, che ottenne uno strepitoso successo, ce ne furono molti che non riuscirono ad emergere dal sottosuolo: Sweeneys Men, Forest (ottimo trio dallo stile prossimo alla Incredibile String Band che pubblicò due dischi su Harvest), Dulcimer, Hedgehog Pie, The Waterson, Dr. Strangely Strange, The Fool, Jack The Lad, Left Handed Marriage, Moonkyte, Panama Limited Jug Band, Clive's Original Band (COB) e Famous Jug Band (queste ultime due formazioni erano guidate dall`ex Incredibile String Band Clive Palmer)...
Jimmy_Page_Roy_Harper_Robert_Plant_Ron_WoodAltri nomi degni di essere ricordati sono quelli di Ivor Cutler (lo trovate come comparsa ed autore anche in qualche disco di Robert Wyatt), Mick Softley, Michael Chapman, Anne Briggs, June Tabor, Tony Rose, Allan Taylor, Martin Carthy, Barry Dransfield, John Kirkpatrick (grande e ricercato strumentista), Gerry Rafferty (con Humblebums e Stealers Wheel).... e credo di averli citati (quasi) tutti. Almeno i più importanti.
Ma la musica folk progressive fu segnata soprattutto dalla presenza di grandi voci femminili: Jacqui McShee (Pentangle), Sandy Denny (Fairport Convention e Fotheringay), Judy Dyble (Fairport Convention e Trader Horne), Shirley Collins, Maddy Prior (Steeleye Span), Bobbie Watson (Comus), Polly Bolton (Dando Shaft), Celia Humphris (Trees), Barbara Gaskin (Spirogyra), Linda Peters, Vashti Bunyan, Ann Steuart (Tudor Lodge)...

L`elenco che segue intende proporre alcuni ascolti fondamentali, materia prima per il neofita e base da cui partire per chi intende approfondire la conoscenza, ma al posto delle classiche recensioni ho creduto opportuno imbastire delle piccole storie in grado di delineare una cronologia (3) e un`inquadratura del folk progressive. Ne deriva un`esposizione dei nomi più importanti, dei quali vengono brevemente delineate delle discografie essenziali, con la trama dei numerosi intrecci che vanno a legarli indissolubilmente l`uno all`altro.

Bell, Boots And Shambles (Polydor 1973)
Gli Spirogyra sono un gruppo fondamentale perchè rappresentano il tramite fra l`area folk e quell`espressione particolare della musica progressive che fu il suono di Canterbury. Il gruppo si formò alla fine degli anni Sessanta, proprio in quel di Canterbury, per iniziativa del chitarrista-cantante Martin Cockerham, e ne facevano parte la vocalist Barbara Gaskin, il bassista Steve Borrill e il pianista-violinista Julian Cusack. E` questa la formazione che nel 1971 - con l`aiuto di Dave Mattacks alla batteria e Tony Cox (il produttore dei Trees) al sintetizzatore - pubblicò “St. Radigunds” su etichetta B & C. Il disco, nonostante fosse un po` acerbo e grezzo, ottenne un`ottima accoglienza per la capacità dimostrata dal gruppo nel miscelare folk progressive, dylanismi e jazz-rock canterburyano. La replica arrivò nel 1972, con “Old Boot Wine” (Pegasus), quando Cusack s`era già perso per strada e il gruppo iniziava a dare i primi segni di sbandamento. Al posto del violinista c`era Mark Francis, chitarra elettrica e tastiere, ma Cusack appariva come ospite di studio insieme al solito Mattacks e ad una nutrita serie di comparse (Alan Laing, Rick Biddulph, Peter Ball, Steve Hillage...). Il disco, che con A Canterbury Tale presenta il doveroso omaggio di Cockerham alle proprie radici, abbandona la freschezza dell`esordio senza raggiungere però il solido equilibrio della maturità . Un equilibrio che verrà finalmente toccato nello splendido, e conclusivo, disco del 1973. Raffinato e moderatamente notturno, fin dalla copertina che ricordava vagamente quelle della Blue Notes, “Bell, Boots And Shambles” venne realizzato da una formazione ormai scremata ai soli Cockerham e Gaskin. Ma, in linea con i precedenti lavori, c`erano gli ospiti di turno che, oltre ai soliti Borrill, Cusack - i quali, evidentemente, non si erano mai staccati completamente dal gruppo - e Mattacks, avevano in questa occasione i nomi di Stan Sulzman (flauto), Henry Lowther (tromba) - entrambi attivi nell`ambiente del jazz inglese, John Boyce (violoncello) e Steve Ashley (zufolo). Quest`ultimo proveniva dalle fila dell`Albion Country Band, ma la vera ciliegina nella torta era un`altra ed era simboleggiata dagli arrangiamenti di flauto, tromba e violoncello curati dalla dark lady Dolly Collins. I brani sono tutti dei piccoli capolavori d`equilibrio fra le varie componenti che da sempre confluivano nella musica del gruppo, ma l`ondeggiante An Everyday Consumption Song e la sorprendente suite In The Western World (autentica saga progressive non distante dai Genesis di “Nursery Cryme”) restano assolutamente inarrivabili. Nel 1974 ci fu lo split, e solo la delicata voce della Gaskin continuò a tessere la tela della continuità , in ambito più propriamente canterburyano, con Hatfield & The North (prima) e in coppia con Dave Stewart (poi).

Bless The Weather (Island 1971)
Lo scozzese John Martyn iniziò con una formazione tipicamente da folksinger ma la corresse con il tempo attraverso l`integrazione nella sua musica, e nel suo modo di cantare e/o suonare la chitarra, di solidi influssi provenienti dal jazz e dal blues. Da allievo dei grandi maestri di fingerpicking diventò, a sua volta, maestro nell`uso dell`effetto echoplex: in questo travaglio può essere racchiusa la linea della sua evoluzione musicale. “Bless The Weather”, in maggior misura del più maturo “Solid Air” e del più sperimentale “Inside Out”, con i quali va a formare un trittico perfetto, contiene tutto il suo mondo che, in definitiva, si riduce a pochissimi elementi: una voce perennemente affumicata, una chitarra che è appendice del suo stesso corpo, una delicatezza spontanea, un calore sincero ed un innato senso della melodia. Tutto questo confluisce in strutture scarne, nitide e semplici, ma mai banali, che scorrono con una fluidità di rara purezza. Il precedente “The Road To Ruin”, concepito a quattro mani con la moglie Beverly Kutner, aveva rappresentato una delle più controverse produzioni di Joe Boyd. John Martyn si era sentito tradito dalle corpose aggiunte strumentali architettate da Boyd in fase di post-produzione e, a partire da “Bless The Weather”, decise di congegnare personalmente i propri dischi, magari con l`aiuto tecnico di John Wood, tornando ad affidarsi nuovamente ad un produttore soltanto con “One World” del 1977, quando scelse il boss della Island Chris Blackwell, che si era fatto un nome lavorando alla realizzazione delle pagine più note di Bob Marley. Fra i musicisti che suonano in questo scarno e tenue esempio di quasi-autocoscienza ci sono nomi di rango come Danny Thompson (che realizzerà con Martyn uno dei sodalizi più fortunati di tutti i tempi), Tony Reeves (ex Bluesbreakers e Colosseum) e Richard Thompson, quasi a voler rappresentare una confluenza delle varie componenti presenti nella musica popolare inglese. I dieci brani, racchiusi fra Go Easy e la breve rilettura di Singin` In The Rain, rappresentano un po` tutti gli interessi del musicista: dal folk al blues, e fino a quell`approccio più sperimentale che lo ha fatto giustamente additare come l`incrocio perfetto fra Tim Buckley e Nick Drake.

First Utterance (Dawn 1971)
Nella trimurti sacra del progressive inglese più esoterico - Third Ear Band, Comus e High Tide - i Comus rappresentarono la fazione più vicina al folk. La loro era una musica umorale, con voci da inferno dantesco e utilizzo di strumenti inusuali per un gruppo rock, come oboe, violino, flauto e viola. Da una parte avevano quindi un immaginario apocalittico, espresso anche dalla bella copertina del disco, che ne ha fatto un modello per musicisti come David Tibet (ma anche gli Angel Of Light di Michael Gira e i Virgin Prunes non sono poi così distanti dalle loro danze pagane), e dall`altra avevano un`impostazione che discendeva dai più validi capiscuola del progressive (Family e Van Der Graaf Generator in testa). La loro è una musica che presenta continui cambi di ritmo e d`atmosfera, imparentata con quella dei contemporanei Henry Cow e con momenti tribali che fanno pensare ad alcune formazioni della `kosmische musik`, e piuttosto lontana dalle altre formazione trattate in questo articolo, ad esclusione di qualche vago legame con i canterburyani Spirogyra. Gli intrecci fra la voce del chitarrista Roger Wooton e della cantante Bobbie Watson sono una delle cose più suggestive del gruppo. A questi intrecci fa da sfondo un`epica, anche nei momenti più rilassati, che oggi può risultare datata, ma che pure continua ad impressionare per la sua forza vorticosa. Il dato più impressionante è che tutta questa potenza veniva ricavata da una strumentazione essenzialmente acustica. A questo disco d`esordio farà seguito il solo “To Keep From Crying” (Virgin 1974) che, purtroppo, non è mai stato ristampato ed è quindi cronicamente irreperibile.

Folkjokeopus (Liberty 1969)
Se dovessi indicare `il più grande` cantautore inglese non avrei dubbi nel fare il nome di Roy Harper, nelle cui traversie ci sono un tentativo di carriera militare, le terribili esperienze del manicomio e della galera, e anni passati a suonare come busker per le strade di Londra. Quest`uomo, tenuto in un palmo di mano da Pink Floyd Steve Broughton Jethro Tull David Bedford Who Nice Led Zeppelin (che facevano tutti a gara per suonare con lui), a cavallo fra gli anni `60 e `70 ha prodotto alcuni fra i dischi più belli e originali dell`epoca: “The Sophisticated Beggar” (Strike 1967), “Come Out Fighting Genghis Smith” (CBS 1967), più una bella serie su Harvest che comprende “Flat Baroque And Beserk” (1970), “Stormcock” (1971), “Lifemask” (1973), “Valentine” (1974) e “Flashes From The Archives Of Oblivion “(1974). E, naturalmente, “Folkjokeopus”. La musica di Roy Harper è folk? La musica di Roy Harper è rock? La musica di Roy Harper è jazz? Direi che, innanzi tutto, la musica di Roy Harper è la musica di Roy Harper. Ed è incredibile. Prendete ad esempio questo disco, prodotto dallo stesso Shel Talmy che lavorava con i Pentangle, e rimarrete basiti nello scoprire un musica che ancor oggi continua a commuovere come sicuramente commuoveva quando venne prodotta. Harper può essere descritto come un incrocio fra il Bob Dylan, il Peter Hammill ed il Syd Barrett più visionari, comunque preferibile a tutti e tre messi insieme. Del primo si porta dietro la declamazione incalzante, senza respiro, del secondo l`impatto epico e del terzo l`esposizione angosciante. Nelle sue canzoni si concentrano più elementi: dal folk al vaudeville, dal jazz ai raga indiani. Le atmosfere sono tese, ad esclusione dei due beffardi vaudeville Exercising Some Control e Manana, e passano dal raga One For All (dedicato ad Albert Ayler, che Harper aveva conosciuto durante un soggiorno danese) al trip bucolico In The Time Of Water (in stile Incredibile String Band), dalla psichedelica Sgt. Sunshine (in stile tipicamente beat-lisergico) alla dylaniana Mc Goohan`s Blues (invettiva contro il potere politico-religioso), dalla canzone medievaleggiante Composer Of Life (bellissima) al frenetico folk-jazz She`s The One. Lo stesso Harper suona basso, chitarra, tastiere e sax. Ad accompagnarlo ci sono Nicky Hopkins al pianoforte, Clem Cattini alla batteria e Jane Scrivener ai cori, mentre più incerte appaiono sia la presenza sia il ruolo di Ron Geesin (anche se è probabile che Geesin, musicista proveniente dall`ambito della classica contemporanea, abbia collaborato ad alcuni arrangiamenti, oltrechè all`inserimento di strumenti atipici, come il sitar, e di qualche registrazione concreta). Se ancora non conoscete Roy Harper è giunto il momento di rompere gli indugi: errare è umano perseverare è da masochisti.

Fotheringay (Island 1970)
Sandy Denny, dopo aver abbandonato i Fairport Convention, formò i Fotheringay con Trevor Lucas, Gerry Conway (provenienti entrambi dagli Eclection), Jerry Donahue e Pat Donaldson (provenienti invece dai Poet & One Man Band e, il secondo, anche dai Dantalian`s Chariot di Zoot Money). I Fotheringay furono i più grandi nel fondere il rock, il folk, la tradizione britannica e le nuove istanze psichedeliche giunte dalla California, con la Denny perfettamente a suo agio nella veste di Janis Joplin inglese. Il gruppo pubblicò solo un disco, irripetibile capolavoro prodotto - manco a dirlo - da mago Joe Boyd. Buona parte dei brani sono scritture originali, ma c`è anche un tradizionale e due cover di musicisti americani: Too Much Of Nothing di Bob Dylan e The Way I Feel di Gordon Lightfoot. I Fotheringay si sfaldarono rapidamente, durante la registrazione di un secondo disco che non venne mai completato, e la Denny realizzò quattro buoni lavori come solista prima di lasciare questo mondo, all`età di soli 41 anni, a causa di un`emorragia cerebrale derivata da un trauma cranico che si era procurata cadendo per le scale. Curiosa è la collocazione in area folk di un supergruppo chiamato The Bunch, nel quale gravitavano la stessa Sandy Denny e altri musicisti del giro Fairport Convention e Fotheringay, che produsse un unico LP contenente la rilettura di classici del rock`n`roll (“Rock On” - Island 1972).

Just Another Diamond Day (Island 1970)
La vicenda di Vashti Bunyan è una delle più singolari in assoluto: il suo disco, dopo essere passato quasi inosservato per una trentina d`anni, ha acquisito improvvisamente una certa notorietà quando dapprima i Piano Magic e poi Devendra Banhart si sono innamorati del suo gracile mondo fiabesco. E pensare che Vashti, all`epoca della sua parabola artistica, aveva avuto come padrini Donovan, Andrew Loog Oldham, Robert Kirby (l`arrangiatore che lavorava con Nick Drake) e Joe Boyd (che produsse il disco), ma una schiera di nomi così illustri non riuscì a far decollare il suo nome oltre la barriera di un limitato numero di cultori. Tant`è che, solo qualche anno fa, il suo nome non compariva quasi mai fra quelli citati nei grandi articoli sul folk inglese. “Just Another Diamond Day”, lo abbiamo già trattato nelle recensioni, è la cronaca di un inconsueto viaggio lungo la costa scozzese, effettuato insieme alla famiglia e con tanto di animali al seguito, che durò qualcosa come un anno e mezzo. La singolarità del viaggio sta nel fatto che avvenne sopra ad un carro, una specie di `arcadinoè` destinata alla salvezza dell`anima. Quelle che ne trassero ispirazione, di conseguenza, sono canzoni semplici come nenie infantili, che fanno innamorare già dal primo ascolto senza annoiare a quelli successivi. Quattordici acquerelli bucolici, in buon numero dalla brevissima durata, che in parte contraddicono le tendenze verso il progressive tipiche del folk di quegli anni. E pensare che alle registrazioni parteciparono campioni del genere folk progressive come Robin Williamson, della Incredibile String Band, e l`accoppiata Dave Swarbrick - Simon Nicol dei Fairport Convention, oltre a Christopher Sykes, John James e Mike Crowther. L`ultima novità , per una musicista che sembra ormai ritornata in scena fresca come una rosa, è rappresentata dalla partecipazione ad un mini CD degli Animal Collective.

Led Zeppelin III (Atlantic 1970)
La presenza di “Led Zeppelin III” in questo elenco desterà sicuramente stupore, dacchè i `quattro dirigibili` sono solitamente identificati con la loro produzione hard rock. In realtà il gruppo di Jimmy Page e Robert Plant abbozzò con questo disco una svolta destinata a concretizzarsi definitivamente nella celeberrima Stairway To Heaven dell`album successivo (dove c`era, guarda caso, la voce aggiunta di Sandy Denny). “III” resta ancor oggi il loro lavoro meno allineato, e basta uscire indenni dalle secche del breve brano d`apertura Immigrant Song e di Since I`ve Been Loving You, un rock blues bello quanto canonico, per ritrovarsi in un universo da favola. E se negli altri brani del primo lato (Friends, Celebration Day e Out On The Tiles) il quartetto pencola ancora nell`incertezza, nel secondo lato inanella una delle più belle sequenze che siano mai state ascoltate, ballate folk semiacustiche di una magnificenza unica che si chiamano Gallows Pole, Tangerine, That`s The Way, Bron-Y-Aur Stomp e, udite udite, Hats Off To (Roy) Harper. Una melodia perfetta come quella di Tangerine, con Robert Plant che finalmente canta invece di urlare, il mondo la stava aspettando davvero da tanti anni!!!. Del resto il disco schierava i quattro sulle stesse barricate in cui si agitava quel grande musicista da loro calorosamente salutato in Hats Off... e, anche se questa è filosofia spicciola, gli amici dei miei amici sono miei amici. “Led Zeppelin III”, non foss`altro perchè contribuì a far circolare il nome di Roy Harper, è uno di quei gioielli da custodire in cassaforte.

Liege & Lief (Island 1969)
A differenza dei Pentangle, che erano il frutto della convergenza di più talenti già parzialmente affermati, i Fairport Convention rappresentano il nucleo da cui si ramificarono alcuni dei più interessanti progetti del folk progressive: Ian Matthews formerà i Matthews Southern Comfort, Sandy Denny i Fotheringay, Ashley Hutchings la Albion Country Band e gli Steeleye Span, e quasi tutti i musicisti del gruppo avranno una produzione solista e/o collaboreranno a numerosi e importanti progetti. Questa differenza è implicita anche nella ragione sociale - Pentangle rappresenta l`unione di cinque cuspidi ben distinte in un`unica forma geometrica mentre Fairport Convention è il nome della casa dove i musicisti del gruppo vivevano in una specie di comune - e si riflette in progetti musicali piuttosto diversi, freddamente studiato a tavolino il primo e caoticamente anarchico il secondo, strettamente chiuso e riservato il primo e tipicamente a fisarmonica il secondo, con musicisti che continuamente vanno e vengono. “Liege & Lief”, il loro quarto disco, fece seguito a due pagine memorabili come “What We Did On Our Holidays” e “Unhalfbricking” e, rispetto ad essi, rappresentò una svolta alquanto significante. I Fairport Convention, pur conservando quelle caratteristiche che ne avevano fatto una sorta di Jefferson Airplane inglesi, con “Liege & Lief” abbandonarono la rilettura di brani del repertorio cantautorale americano (Bob Dylan, Joni Mitchell...) per affiancare alle pregevoli scritture originali, presenti da sempre, un più massiccio recupero del patrimonio folk autoctono. E` per questo motivo che il disco venne additato da più parti come la bibbia del folk-rock inglese. La line-up è, in assoluto, la migliore che il gruppo abbia mai avuto, con Sandy Denny (voce), Simon Nicol e Richard Thompson (chitarre), Ashley Hutchings (basso), Dave Mattacks (batteria) e Dave Swarbrick (violino e viola). A scoprire il gruppo, ed a produttore i suoi dischi migliori, fu naturalmente Joe Boyd.

Marjory Razorblade (Virgin 1973)
In Kevin Coyne il folk era più che altro una questione d`attitudine, chè la sua musica, pur con qualche eccezione, era essenzialmente blues. La tradizione britannica, sicuramente presente, era talmente diluita negli altri elementi da essere spesso indecifrabile all`interno di quello che può essere definito a ragione come `autentico folk moderno`. L`attitudine del folksinger emergeva comunque nelle numerose esibizioni date in solitudine e con il solo accompagnamento della chitarra, per scelta o per necessità , ed il margine di contaminazione, fra la sua inclinazione ed il folk tradizionale, stava proprio in un elemento, così presente e importante per buona parte dei musicisti inglesi di quegli anni, come il blues. La sua voce sgraziata ricordava Van Morrison ed Eric Burdon, dai quali ereditava anche quella grinta animalesca che ne fece un precursore del pub rock (e, di conseguenza, del punk). Con Burdon condivise anche alcuni collaboratori come Zoot Money e il futuro `polizziotto` Andy Summers. Gli arrangiamenti delle sue canzoni, strani, essenziali e sicuramente influenzati dalla sua attività di psichiatra, hanno fatto pensare da sempre a Captain Beefheart, con il quale aveva in comune anche una passione bipartita fra musica e pittura. L`esordio solista di Coyne avvenne nel 1972 con “Case History”, pubblicato per l`etichetta Dandelion di John Peel, a cui fece seguito questo miracoloso disco su Virgin. Accompagnato da musicisti di `poco grido` e avvalendosi della produzione di Steve Verroca, che si farà notare in seguito per il lavoro con Link Wray, il `grizzly` inglese si staglia in tutta la sua grandezza. A momenti più `consueti`, come il quadretto beefheartiano che da il titolo al disco (cantato a cappella), l`incalzante Marlene, perfetto out-take dalle settimane astrali di Van Morrison, o le stratosferiche ballate Talking To No-One, House On The Hill, Nasty e Jackie And Edna, si affiancano autentici capolavori di eccentrica stravaganza. Non conoscere canzoni come Dog Latin (epos da bettola), This Is Spain (logicamente in stile spanish-folk), Chairmans Ball (una tantum puro folk britannico) e Good Boy (filastrocca dell`assurdo) sarebbe un vero delitto. Altri dischi consigliati di Coyne sono “Dynamite Daze” (Virgin 1978) e “Babble-Songs For Lonely Lovers” (Virgin, 1979), quest`ultimo in coppia con Dagmar Krause.
(R.I.P.: Kevin Coyne ci ha lasciato per sempre il 2 Dicembre 2004).

No Roses (Pegasus 1971)
La Albion Country Band (in seguito Albion Dance Band e Albion Band) fu messa in piedi dal bassista Ashley Hutchings, transfuga dalla formazione storica dei Faiport Convention, e rappresenta uno dei progetti più ambiziosi del folk progressive, se non altro per il numero dei musicisti coinvolti che, in questo primo disco, è di ben 26. L`altro elemento di fondamentale importanza è dato dalla presenza di Shirley Collins, contitolare del disco, la cui voce è presente in tutti i brani: quasi inutile aggiungere che si tratta di una figura chiave, che ha veramente fatto la storia della musica inglese e il cui contributo alla rinascita del folk e alla sua modernizzazione è assolutamente inestimabile. La Collins, attiva fin dagli anni Cinquanta, all`epoca di “No Roses” aveva già inciso degli ottimi dischi fra i quali il bellissimo “The Power Of The True Love Knot” (1968 Polydor), prodotto da Joe Boyd, con la partecipazione di Robin Williamson e Mike Heron (della Incredibile String Band) e gli arrangiamenti della sorella Dolly Collins. Dolly Collins è contitolare con Shirley di un altro grande disco, l`oscuro “Love, Death And The Lady” (Harvest 1970) che precede d`appresso “No Roses” e si avvale del contributo, in alcuni brani, di Terry Cox dei Pentangle. Fra i musicisti coinvolti nel progetto Albion Country Band ci sono Richard Thompson, Maddy Prior, Simon Nicol, Lol Coxhill (a rappresentare il legame con le istanze del progressive più innovativo), Dave Mattacks, l`onnipresente Dolly Collins e John Kirkparick. Il disco è una piccola antologia di musica tradizionale inglese, tali sono i nove brani, arrangiata però dalla Collins in chiave decisamente moderna, con uno splendido equilibrio fra strumentazione elettrica ed acustica. Fra i titoli presenti, che contemplano esempi di musica folk sia estremamente raffinata sia sguaiatamente ignorante, c`è quello che forse è il suo più celebre cavallo di battaglia, quel Just As The Tide Was A `Flowing che verrà ripreso anni dopo dai 10.000 Maniacs. Dopo “No Roses” la Collins seguiterà a pubblicare materiale di qualità fino a quando, all`inizio degli anni Novanta, David Tibet la chiamerà a collaborare ad un disco dei Current 93 e gli produrrà sulla propria etichetta la splendida raccolta “Fountain Of Snow”, rilanciandone così il nome presso il pubblico più giovane. Nel 2002 è uscito il cofanetto antologico “Within Sound” (Fledg`ling) composto da ben quattro CD, si tratta di una carrellata in quasi 50 anni di carriera esemplare che raccoglie materiale edito ed inedito. Hutchings, dal canto suo, darà vita agli Steeleye Span insieme alla cantante Maddy Prior, si tratta di un gruppo molto sopravvalutato ma comunque autore di buoni dischi quali “Please To See The King” (B&C 1971) e “Ten Man Mop” (Pegasus 1971).

On The Shore (CBS 1970)
I Trees erano il perfetto gruppo di folk-rock, con una formula strumentale quadrangolare - doppia chitarra basso batteria (Barry Clarke, David Costa, Bias Boshell e Unwin Brown) - più una voce femminile (Celia Humphris) a chiudere il cerchio. Il bassista Bias Boshell era anche l`autore di buona parte dei brani e, a sua volta, cantante. “On The Shore”, che seguiva di poco il più acerbo “The Garden Of Jane Delawney” (CBS 1970), venne prodotto da Tony Cox (non sono riuscito a constatare se c`è parentela con il Terry Cox batterista dei Pentangle), un nome che compare anche in qualche altro disco folk progressive di quel periodo. La musica, con avvolgenti crescendo e qualche stravagante intersezione, è imperniata soprattutto sulla bella voce della Humphris e sui voli pindarici della chitarra di Clarke. Nel primo lato ci sono canzoni più lunghe e dilatate, quali la classicissima Streets Of Derry e l`ottima Sally Free And Easy (composta dal folksinger Cyril Tawney e capolavoro del disco) con Boshell che suona il pianoforte, mentre il produttore Tony Cox lo sostituisce al basso, e con la voce femminile a ricamare intarsi delicatamente sussurrati. Nel secondo lato i brani sono mediamente più brevi, fra di essi lo strumentale Adam`s Toon (poco più di un minuto) e il curioso While The Iron Is Hot (con un arrangiamento d`archi e un impetuoso intermezzo elettrico). Inspiegabilmente il gruppo ottenne una scarsa risonanza nella stampa e un altrettanto scarso successo di pubblico, nonostante avesse alla spalle una grande etichetta come la CBS (che però, va detto, non puntava le sue carte sul folk progressive), e in conseguenza di ciò andò incontro ad un precoce scioglimento. Restano queste pagine a testimoniarne l`indubbia grandezza.

Pink Moon (Island 1972)
Inserire Nick Drake fra i `folksinger` può sembrare una forzatura, e/o una limitazione, ma tutto dipende da come intendiamo il folk: una mummia per musei oppure qualcosa di vivo e in grado di rinnovarsi. Se pensate che il folk sia materia inerte Nick Drake non è stato sicuramente un folksinger - ma non lo sono stati neppure la maggior parte degli artisti trattati in questo articolo e la rivoluzione di Bob Dylan al Festival di Newport può essere considerata come tempo perso - mentre se pensate che il folk è (e debba essere) materia viva, il nome di Drake entra di diritto fra quelli dei più grandi `folksinger` di tutti i tempi, perchè pochi come lui hanno saputo essere talmente innovativi fino a gettare delle solide basi per le generazioni future (seppure non fosse di certo questo il suo scopo). E poi non dobbiamo dimenticare che nei suoi primi due dischi comparivono alcuni `enfant terrible` del folk inglese (Danny Thompson, Richard Thompson, Dave Pegg e Dave Mattacks). Non saprei cos`altro dire di Drake, tanto se n`è scritto, senza cadere in un labirinto di pure banalità . Caso mai va rimarcato come il suo percorso, inverso rispetto a quello dei suoi contemporanei, abbia precorso i tempi, le idee e gli stili. Drake, laddove tutti muovevano da soluzioni scarne verso arrangiamenti sempre più sontuosi, passò dagli arrangiamenti orchestrali presenti in “Five Leaves Left” (Island 1970), al più misurato “Bryter Later” (Island 1970) e, infine, alla totale introspezione di “Pink Moon”. E` d`obbligo dare atto a Joe Boyd di aver creduto nel musicista e di essergli stato sempre vicino, un amico più che un produttore, anche se tutto questo non servì ad evitare il tragico epilogo. Però devo dire che, artisticamente parlando, il fiuto di Boyd in questo caso fece acqua: troppo tardi capì che a Drake bastavano le sue canzoni, la sua voce e la sua chitarra per esprimere sensazioni talmente profonde da essere inaccessibili alla maggior parte degli uomini. Per chiudere riporto le parole di Solid Air, una canzone che John Martyn gli aveva espressamente dedicato: `Sei arrivato molto profondo / Sei vissuto nell`aria solida / Hai perso il tuo sonno / E ti sei mosso attraverso l`aria solida`.

Pour Down Like Silver (Island 1975)
Richard Thompson, dopo aver dato il sangue ai Fairport Convention, iniziò una carriera solista ricca di soddisfazioni e di grandi album. Una carriera che prosegue ancor oggi per quest`uomo che, quasi unico nel conservare tanta creatività dopo un periodo così lungo passato sulle scene, sembra avere sette vite come i gatti. “Pour Down Like Silver”, realizzato a quattro mani con la moglie Linda Thompson (o Peters), cadde preciso a chiudere l`epopea felice del sogno hippy. La speranza di grandi cambiamenti sociali aveva ormai abdicato, per lasciare posto al nichilismo punk o all`introspezione dark, e il progressive aveva da tempo tradito le promesse iniziali per trasformarsi in un carrozzone imbastito di pomposa artificiosità . I coniugi Thompson trovarono rifugio nell`Islam, esattamente nella filosofia sufista, e questo è il disco che riflette con più convinzione, attraverso le sue cupe atmosfere, la loro scelta. “Pour Down Like Silver”, più che un disco, è infatti una preghiera. E` un`invocazione fatta di folk e di rock, eppure non è folk-rock ma qualcosa di diverso, qualcosa che, se la parola non fosse stata usata per definire ben altre musiche, potremmo chiamare `soul`. Al fianco dei coniugi Thompson c`erano un gruppo di musicisti che, in buona parte, avevano fatto la storia del folk progressive e della musica inglese in genere: i bassisti Pat Donaldson e Dave Pegg, i batteristi Dave Mattacks e Timi Donald, il fisarmonicista John Kirkpatrick, i violinisti Nic Jones e Aly Bain, il trombettista Henry Lowther, la cellista Clare Lowther, il flautista Ian Whiteman e il clarinettista Jack Brymer (ma a dominare sono la chitarra del leader e la fisarmonica di Kirkpatrick). Una grande esperienza e una grande maestria al servizio di una raccolta di brani suonati e cantati benissimo, finanche in modo troppo passionale, da gente che ormai aveva solo da insegnare, ammesso che ciò sia possibile, e lo faceva con classe e trasporto, trasgredendo l`evoluzione del progressive che alla troppa tecnica non associava certo l`emotività . Le due voci si alternano, e a volte si contrappuntano, in un idillio dalle gambe corte che ha già la sorte segnata ed è destinato, dopo la sua fine precoce, a lasciare strascichi di velenosa polemica (se ne trovano tracce nell`ottimo “Hand Of Kindness” di Richard Thompson - Hannibal 1983) . In una carriera costellata di ottime produzioni com`è quella di Thompson è anche difficile dare consigli, ma oltre a questo “Pour Down Like Silver” direi di mettere assolutamente le mani su “I Want To See The Bright Lights Tonight” (Island 1974), “Shoot Out The Lights” (Hannibal 1982), e “Rumor And Sigh” (Capitol 1991), i primi due con Linda Thompson e l`altro a suo nome.

Sunshine Superman (Epic 1966)
Donovan Leitch è stato troppo spesso liquidato come una specie di Bob Dylan britannico. In realtà i suoi inizi da puro folksinger possono essere accomunati a quelli del primo Dylan, ma ben presto Donovan prese le distanze dal famoso modello americano per imboccare la strada di un pop-folk psichedelico che faceva ampio uso di strumenti come sitar e tablas e di curiosi arrangiamenti paragonabili a quelli prediletti dai tardi Beatles. I molti detrattori di questo menestrello non ci hanno mai spiegato come mai egli fu così stimato da quei musicisti americani che loro stessi portano su un palmo di mano (Jefferson Airplane, Van Dyke Parks, Stephen Stills...), tutti musicisti che non hanno disdegnato la reinterpretazione di alcune delle sue canzoni (The Fat Angel, Season Of The Witch, Colours...). I suoi brani non posseggono certo la grande forza del grande poeta americano, tanto per tornare al paragone iniziale, ma lo sovrastano in quanto a raffinatezza di scrittura. “Sunshine Superman” esce alla fine del 1966 negli Stati Uniti e solo a metà del 1967 in Inghilterra. Le due versioni differiscono abbastanza, com`era costume in quegli anni, sia per la copertina sia per i brani presenti: la versione inglese ha due canzoni in più mentre altri tre titoli differiscono dall`una all`altra edizione. Il disco americano si lascia però preferire per la presenza di due perle del calibro di The Trip e The Fat Angel. Ancora ottimi, oltre al delizioso pop-psichedelico che titola l`album, sono Season Of The Witch (un classico senza tempo ripreso da altri musicisti in innumerevoli versioni), Bert`s Blues (dedicata a Bert Jansch, al quale Donovan dedicò anche una House Of Jansch), Three King Fishers (ballata medievale speziata di sapori orientali), Ferris Whell (pure questa orientaleggiante) e le delicatissime ballate Guinevere, Celeste e Legend Of A Girl Child Linda. L`influenza di Donovan nello sviluppo del folk progressive, soprattutto per quanto riguarda un gruppo come la Incredibile String Band, è veramente incalcolabile.

Sweet Child (Transatlantic 1968)
I Pentangle presentarono il loro secondo disco in una veste, quella del doppio album registrato metà in studio e metà dal vivo, che all`epoca della sua uscita era piuttosto inusuale. “Sweet Child”, nel proporre tale formula, fu preceduto di qualche mese da “Wheels Of Fire” dei Cream ma anticipò nettamente il pinkfloydiano “Ummagumma”. I cinque poli del `pentangolo` erano incarnati da una sezione ritmica di matrice jazz composta da Terry Cox e Danny Thompson (provenienti dalla Blues Incorporated di Alexis Corner), dal tandem chitarristitico Bert Jansch - John Renbourn (due appassionati di blues e folk barocco) che già nel 1966 aveva condiviso il disco “Bert & John”, e dalla voce angelica di Jacqui McShee. L`impostazione di Jansch, per quel che riguarda i due chitarristi, era di tipo più cantautorale, mentre Renbourn era essenzialmente concentrato sulle tecniche strumentali. Il gruppo miscelava tradizione folk, blues e jazz in un impasto molto riuscito, e in seguito pubblicò altri due dischi di grande valore: l`acustico “Basket Of Light” e “Cruel Sister” (quest`ultima è la creatura più progressive della loro carriera). “Sweet Child” si compone di molti brani della tradizione inglese (4) e americana, strumentali e non, e di alcune scritture originali. Le parti vocali sono essenzialmente pertinenza di Jansch e della McShee, mentre gli strumentali sono affidati alla perizia dei due chitarristi (o a quella di Danny Thompson, come avviene nella riproposizione dei mingusiani Haitian Fight Song e Goodbye Pork-Pie Hat). Uno dei rari brani firmati da Cox, Moon Dog, è dedicato al leggendario musicista americano Louis T. Hardin. La produzione è affidata a Shel Talmy (unica vera alternativa allo strapotere di Joe Boyd) che aveva già fatto esperienza con gruppi rock come Who e Kinks.
La carriera dei due chitarristi è costellata di numerose prove soliste, anche pregevoli, mentre Thompson è tutt`ora uno dei più ricercati strumentisti inglesi. Per quanto riguarda Jansch segnalo l`eponimo esordio (Transatlantic 1965), “Jack Orion” (Transatlantic 1966), “Avocet” (Charisma 1979) e il recente “Edge Of A Dream” (Sanctuary 2002), dove compare un`ospite di lusso come Hope Sandoval dei Mazzy Star, sono per buona parte dischi saturi di fantasie chitarristiche e di arrangiamenti innovatori che hanno avuto un`influenza incalcolabile nella musica degli ultimi trent`anni. Di John Renbourn, strumentista tecnicamente più rigoroso e misurato, opterei invece per “The Lady & The Unicorn” (Transatlantic 1970) e “Faro Annie” (Transatlantic 1971); il primo è un viaggio a ritroso nella tradizione del folk europeo, fino alla riscoperta di alcune danze italiane del Trecento, mentre il secondo sposta l`epicentro verso le radici popolari, bianche e nere, della musica americana. L`accoppiata Terry Cox - Danny Thompson è invece presente nel disco d`esordio dei discreti Tudor Lodge (Vertigo 1971), uno dei tanti gruppi minori di folk progressive che si formarono in quegli anni. Il contrabbassista, in particolare, ha suonato un po` con tutti i musicisti inglesi orientati verso il folk, da Nick Drake a John Martyn a Richard Thompson, ma una sua partecipazione che mi sta particolarmente a cuore è quella allo splendido “Djelika” (Hannibal 1995) del malii Toumani Diabate, un ennesimo disco prodotto da quel diavolo do Joe Boyd.

The Hangman`s Beautiful Daughter (Elektra 1968)
La Incredibile String Band fu senza dubbio il più popolare gruppo di folk lisergico e “The Hangman`s Beautiful Daughter”, incastonato fra due perle lucenti come “The 5.000 Spirits Or The Layers Of The Onion” (Elektra 1967) e “Wee Tam / The Big Huge” (Elektra 1968, confezionato sia come doppio LP sia come due LP distinti), rappresentò il momento più fulgido della loro arte. Le loro erano canzoni dilatate all`inverosimile, con all`interno cambi di ritmo e d`atmosfera, citazioni, ponti, inserzioni stralunate e azzardate, erano canzoni `stonate` che sembravano non avere nè capo nè coda, suonate con una strumentazione degna di un ensemble di world music eppure tutt`altro che terrene, e magari era proprio questa la musica che `adamoedeva` ascoltavano nel paradiso terrestre, all`inizio, prima del proibizionismo divino, ed ecco che questi due pazzi menestrelli ce la riproposero in tutta la sua stravagante e acerba bellezza. Un plauso a Joe Boyd che diede credito al duo (ma all`inizio si trattava di un trio comprensivo di Clive Palmer) e seppe trasporne su disco tutta la loro deragliante magia, senza imporre nessuna limitazione agli orizzonti, tutt`altro che definibili, di Robin Williamson e Mike Heron. Joe Boyd seppe evitare il rischio di tarpare le ali a chi stava letteralmente volando e questo, oltre che della Incredibile String Band, è anche il suo capolavoro. Fra le segnalazioni è d`obbligo citare la presenza di Dolly Collins, autentica dama nera del folk progressive. La stagione creativa del duo durerà poco, e presto arriveranno le secche di “U”, ma la riproposizione ad ibidem di siffatto capolavoro era impensabile, ed al di là dei suoi confini non poteva esserci altro che il vuoto. Celebre la foto di copertina (con donne, amici e bambini) che sembra ritrarre, più di un gruppo musicale, i giocolieri di un circo ambulante o, meglio, gli adepti di una qualche comune dedita al culto del dio pan, i Current 93 la citeranno nel loro “Earth Covers Earth”.

The Piper At The Gates Of Dawn (Columbia 1967)
Cosa c`entrano i Pink Floyd in un articolo sul folk progressive?, si domanderà il lettore. Beh... i Pink Floyd c`entrano e in doppia misura, per lungo e per largo. C`entrano perchè sono stati fra i precursori del progressive e c`entrano perchè le loro canzoni sono fra i più classici esempi di folk mutante. Prendete questo primo disco del gruppo, l`unico con il folletto Syd Barrett saldamente al timone, ed ascoltatevi Flaming, The Gnome, Chapter 24, The Scarecrow e Bike. Magari si tratta di un approccio semplicemente intuitivo, ma cazzo che roba!!! Ho l`impressione che il gruppo, dopo avere vissuto un momento di grande notorietà negli anni `80 (in epoca di revival psichedelico), negli ultimi anni sia stato messo un po` in disparte, e questo è davvero un peccato perchè dischi come “The Piper At The Gates Of Dawn” devono essere assolutamente conosciuti. Accanto a questo primo LP, per quanto riguarda la pertinenza al nostro articolo, consiglio l`ascolto di una qualsiasi raccolta con i primi singoli (purchè ci sia l`Arnold Layne prodotta da Joe Boyd) ed “Ummagumma” (Harvest 1969), dove trovate una fantastica ballata acustica di Roger Waters che più folk non si può, Grantchester Meadows, oltretutto sottolineata da suggestive registrazioni d`ambiente. E infine, è così logico che uno rischia di dimenticarselo, “The Madcap Laughs” (Harvest 1970), primo disco solista di Syd Barrett.

Shane_McGowan_foto_di_John_CoventryL`articolo sul folk progressive potrebbe finire qui, sennonchè manca qualcosa, un anello, un collegamento che possa riempire quel vuoto che c`è fra il folk progressive e quello che abbiamo voluto definire come `nu folk`. E una buona operazione di archeologia musicale non può certamente definirsi completa se un intervallo così consistente, come quello che dalla metà degli anni `70 porta alle soglie del nuovo millennio, viene lasciato vuoto. Ci vuole un collegamento che non può limitarsi alla riscoperta di Vashti Bunyan da parte di Devendra Banhart e degli Animal Collective nè ad alcune evidenti similarità fra il folk progressive e il nu folk. E volendo cercare un trait d`union fra il folk progressive inglese, o almeno fra una parte di esso, e l`odierna scena del nu folk non mi sembra che questo possa essere trovato nel folk inglese degli anni Ottanta che - con i vari Mekons, Chumbawamba, Pogues, The Men They Couldnt Hang, Terry & Gerry e Billy Bragg - aveva riferimenti specifici nel punk e nel folk da bettola (oltre che nella canzone politica popolare) ma non negli esotismi di molto folk progressive. E neppure riesco ad azzardare l`idea di un`evoluzione passata attraverso il folk apocalittico dei Curren 93, che pure avevano una fonte d`ispirazione nei Comus, nella Incredibile String Band e in Shirley Collins, in quanto anche questa estetica è piuttosto specifica e non può certo essere considerata come passaggio intermedio che dal folk progressive porta al nu folk. Tracce di una continuità , anche attitudinale, sono invece rinvenibili in quel `rock delle radici` che, negli Stati Uniti degli anni `80, pose un freno all``eresia` new wave per ricercare una propria identità nei meandri di un passato troppo recente per essere dimenticato. E non è certo un caso se REM e 10.000 Maniacs - rispettivamente in “Fables Of The Reconstruction” (IRS 1985) e “The Wishing Chair” (Elektra 1985) - furono prodotti proprio da un redivivo Joe Boyd.

l_omaggio_dei_Current_93_al_folk_progressiveI più indicati a rappresentare questa continuità , fra i vari gruppi di `roots rock`, furono sicuramente gli Opal e, ancor di più, quei Mazzy Star che sorsero dalle loro ceneri, e ho quindi pensato che era giusto tracciare un profilo anche di quella vicenda. Gli Opal si formarono per iniziativa di David Roback, ex Rain Parade, e di Kendra Smith, ex Suspects e Dream Syndicate, la quale veniva additata da più parti come la nuova Nico (5). Accanto ai due c`era soltanto il batterista Keith Mitchell, che proveniva dai Green On Red, mentre gli altri accompagnatori variavano di disco in disco. I tre principali attori avevano partecipato a “Rainy Day”, una realizzazione collettiva, dal taglio decisamente folksy, fatta essenzialmente di cover. La prima realizzazione degli Opal fu rappresentata da un singolo del 1984, che uscì sia in versione 7 pollici sia in versione 12 pollici, con titoli e nome del gruppo che cambiavano sia in base al formato sia in base all`edizione (inglese o americano). Il 7 pollici uscì negli Stati Uniti su Serpent a nome Clay Allison, e conteneva i brani Fell From The Sun e All Souls. I due brani furono pubblicati, sempre su Serpent, anche in versione di EP, con aggiunti altri due titoli (Grains Of Sand e Lullaby), e venne accreditato ai tre singoli musicisti invece che alla sigla Clay Allison. In Europa l`EP uscì su Rough Trade, sempre a nome dei tre musicisti, con i brani Fell From The Sun, Grains Of Sand e Freight Train. Le atmosfere erano trasognate, dilatate, soffusamente elettriche, con ondeggianti percussioni dal mood molto orientale, in uno stile che rimandava sia alla migliore psichedelia pinkfloydiana sia al miglior John Fahey. Si trattava di grandi ballate se non di veri e propri raga (Lullabye).
Non ho mai saputo perchè i tre decisero così repentinamente di cambiar nome ma, dal momento che Clay Allison è un personaggio piuttosto noto nella storia degli Stati Uniti, non sono da escludere problemi legali. E` così che l`anno seguente uscì in Inghilterra, per l`etichetta One Big Guitar, un EP a nome Opal con inclusi tre brani: il jazz svogliato Empty Bottles, la ballata dai toni blues Northern Line e il delirio/calvario psichedelico di Soul Giver, dove le istanze presenti altrove si tingevano di distorsione elettrica. Ci vollero altri due anni per completare il primo LP che logicamente, viste le premesse, era atteso con grande trepidazione dagli appassionati. E invece “Happy Nightmare Baby”, questo il titolo, deluse le attese, a partire dal fatto che quasi nove dei quarantadue minuti del disco erano occupati dalla già edita Soul Giver. Quel brano rappresentava oltretutto il momento migliore di un disco che, in larga parte, presentava una regressione a quell`ambiente paisley underground frequentato dai tre musicisti negli anni pre-Opal. Si trattava di un disco fortemente elettrico, con impetuose quanto banali schitarrate di stampo hard-garage, che non rendeva giustizia alle potenzialità del gruppo, un disco non brutto in assoluto ma estremamente inutile. Si salvavano, oltre a Soul Giver, le filastrocche barrettiane She`s A Diamond e Happy Nightmare Baby, ma la magia dei primi singoli era andata irrimediabilmente perduta.
Nel tour europeo, che seguì l`uscita del disco, Kendra Smith non era della partita e, al suo posto, c`era Hope Sandoval, donna affascinante proveniente dai Going Home, un duo folk condiviso con Sylvia Gomez il cui disco d`esordio, prodotto proprio dalla coppia Roback / Smith, non è mai stato realizzato. L`assenza venne motivata con l`idiosincrasia per i viaggi da parte della Smith, ma in realtà c`era dell`altro. Quando nel 1990 il gruppo si ripresentò, con un nuovo disco e il nome cambiato in Mazzy Star, la Sandoval aveva sostituito la Smith in pianta stabile.
Nel 1989 veniva intanto pubblicata la raccolta “Early Opal” che raccoglieva i brani dei primi singoli, ad esclusione di Freight Train, e vari inediti risalenti a quella stessa splendida primavera creativa vissuta dal gruppo ai suoi esordi, fra questi brani inediti c`era anche una versione semiacustica di She`s A Diamond (migliore di quella che era stata inclusa in “Happy Nightmare Baby”).
Kendra_SmithLa Smith si dedicò alla carriera solista, nei panni di una tenebrosa `femme fatale`, ma pubblicò soltanto il 10 pollici “The Guild Of Temporal Adventure” (Fiasco 1992) e il CD “Five Ways Of Disappearing” (4AD 1995) (oltre ad alcuni brani su compilation e singolo). Le vicende di Kendra Smith, però, a questo punto ci interessano relativamente, perchè il testimone che doveva portare il rinnovamento del folk fino ai nostri giorni era ormai passato nelle mani dei Mazzy Star.
La voce della Sandoval, meno profonda rispetto a quella della signora che l`aveva preceduta, era però più calda e sensuale, e gli undici brani del disco d`esordio risplendevano tutti di questa sua grazia così pura. E mentre gli Opal erano stati il gruppo di David Roback e Kendra Smith, i Mazzy Star si rivelarono, fin dall`inizio, come il gruppo di Hope Sandoval, la quale contrapponeva alla `freddezza` della Smith un calore che, se non controllato, poteva diventare anche eccessivo. “She Hangs Brightly” uscì nel 1990 per Rough Trade e promise, ancora una volta, più di quanto verrà poi mantenuto. Nella formazione, oltre a Roback e Keith Mitchell, c`erano Sylvia Gomez (già con Hope Sandoval nel duo Going Home) e altri tre musicisti provenienti dall`entourage del vecchio gruppo. Il disco era un perfetto esempio di folk-rock, delicato e avvolgente, a tratti acustico ma non privo di momenti più elettrici come la trascinante Ghost Highway (che suonava quasi come una la loro rilettura di You Really Got Me). Un`autentica raccolta di grandi canzoni.
Servirono tre anni per dare un seguito al disco d`esordio e “So Tonight That I Might See” (Capitol) ri-deluse le attese. Formalmente rappresentava un ritorno alle atmosfere dilatate dei primi Opal, ma risultava essere radiofonico e patinato, con ovvietà alle quali musicisti ormai navigati come Roback sarebbero dovuti sfuggire d`ufficio e, quindi, davano l`idea di essere volute per rendere il suono più commestibile al pubblico medio. Tutti gli interventi strumentali - chitarra elettrica, tastiere, batteria... - suonavano stantii e, in certi momenti, anche fastidiosi, con continui tocchi di slide a rimarcare una eccessiva languidezza di fondo e con a solo chitarristici di ricercata routine. La stessa voce della Sandoval perdeva forza e manteneva soltanto una sua leziosa sensualità . Magari la superficialità con cui spesso si affronta l`ascolto della musica in questi anni poteva far urlare al capolavoro, ma in realtà di capolavoro in questo disco non c`era neppure l`ombra.
La volontà di piacere ad ogni costo prendeva il sopravvento sulla volontà di sorprendere anche nel successivo “Among My Swan” (Capitol 1996), un disco in cui la patina del lavoro precedente si faceva addirittura appiccicosa. Il nocciolo della questione stava nell`impossibilità di ricreare la musica dei primi Opal con una voce diversa da quella di Kendra Smith (così glaciale e asciutta), e la voce di Hope Sandoval se ne collocava esattamente agli antipodi. Si trattava di una voce già sufficientemente `ricca` per doti naturali e che non aveva quindi bisogno di molte decorazioni, casomai aveva bisogno di essere smorzata, e se queste decorazioni diventavano poi eccessive il risultato era naturalmente destinato a naufragare anche dal punto di vista del buon gusto estetico.
Hope_SandovalDi tutto ciò sembra essere cosciente Colm O`Ciosoig (ex My Bloody Valentine) che ha aiutato la cantante nella produzione del suo primo disco solista. Perchè dopo “Among My Swan” per i Mazzy Star avvenne lo split e la Sandoval fece quasi tabula rasa del passato, ripresentandosi alla grande con “Bavarian Fruit Bread” (Rough Trade 2001). Il disco, quasi a sottolineare quel calore di cui s`è già detto, esce a nome Hope Sandoval & The Warm Inventions e riprende il discorso interrottosi dopo “She Hangs Brightly”. Fra le partecipazioni ce n`è una che riveste una particolare importanza, perchè va finalmente a chiudere il cerchio della nostra storia, ed è la presenza in due brani del vecchio Bert Jansch (e la Sandoval ricambierà il favore con un cammeo nell`ultimo disco del chitarrista). Ecco che il nostro percorso giunge al termine e la Sandoval, che appare contemporaneamente nel disco di Jansch e in quello dei Vetiver (gruppo di cui fa parte Devendra Banhard), si pone anche concretamente come anello di congiunzione fra il nu folk e il vecchio folk.






(1) Tanto in alternativa al music business ufficiale che la produzione di questi musicisti è spesso dispersa in oscuri CD-R.
(2) Per quanto riguarda il progressive rimando ai due ottimi articoli, consultabili su internet, di Samuele Boschelli e Michele Chiusi. Rispetto a questi due articoli potrei cambiare qualche valutazione sui dischi e sugli artisti fondamentali, ma una mia riscrittura non porterebbe certo nè novità nè miglioramenti sostanziali (semmai il contrario), quindi vale benissimo il proverbio: `se non hai niente da dire taci`.
(3) La cronologia temporale, seppure i titoli siano riportati in ordine rigorosamente alfabetico, è ben facile da individuare.
(4) Ma c`è anche una danza medievale italiana del 14° Secolo (La Botta).
(5) Non so se può interessarvi questa curiosa coincidenza, ma “Desertshore” di Nico era stato co-prodotto proprio da Joe Boyd, con John Cale, e lo stesso Cale suonava la viola nel secondo disco di Nick Drake.


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