Ornette Coleman e Thelonious Monk sono due dei più importanti musicisti del secolo scorso, e nello scrivere ciò non scopro certo l’opera pia, ma voglio precisare che si tratta altresì di due dei miei musicisti preferiti e, credetemi, la seconda asserzione non è affatto conseguenza della prima.
Questi due CD rendono omaggio, e lo fanno in modo straordinario, al talento dei due musicisti afroamericani, talento, mi duole dirlo, non ancora universalmente riconosciuto.
Devo premettere che mi sono approssimato con un certo timore all’ascolto di “Ornettiana”, prefigurandomi il solito atto di riverenza verso un musicista attraverso le reinterpretazione di alcuni dei suoi brani più famosi. Fortunatamente in “Ornettiana” non v’è nulla di ciò, a iniziare dall’assenza di un’altrimenti irrinunciabile Lonely Woman. Quello coltivato da Monica “Nica” Agosti, cantante dalla chiara impostazione jazz, per la musica di Coleman è un amore sincero che l’ha già portata a presentare una tesi, presso la Siena Jazz University dove si è diplomata, sulla sua indole di musicista sperimentatore. Possiamo dire che lì, in quella tesi, viene seminato il seme che oggi ha portato alla realizzazione di “Ornettiana”. Un disco comunque particolare perché, per riprendere quanto scritto a inizio frase, solo quattro dei dodici brani portano la firma di Ornette Coleman, e nessuno di essi è tratto dai dischi più importanti del sassofonista (quelli pubblicati su Atlantic e Blue Note fra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ‘60). I riferimenti a Coleman, e alla sua figura musicalmente statuaria, sono di altro tipo. Ad esempio nel fatto che “Nica” si fa accompagnare da un quartetto – sax alto, tromba, contrabbasso e batteria, che ricalca le storiche formazioni schierate in dischi monumentali quali sono “The Shape Of Jazz To Come”, “Tomorrow Is The Question”, “Change Of The Century”, “This Is Our Music” e “Free Jazz”. Oppure che il nome dato a quel quartetto, ShapeX, riprende il titolo di due dischi di Coleman (“The Shape Of Jazz To Come” e “Song X”). Scendendo più nel sottile, in un titolo come Echoes From Fort Worth, Texas (Fort Worth è il luogo di nascita di Coleman) c’è una evidente citazione all’European Echoes contenuta in “At The “Golden Circle” Stockholm – Volume One”. Ma il legame più profondo fra “Ornettiana” e Ornette Coleman sta naturalmente nella musica, nelle sue strutture, nell’ostinato inseguire, da parte degli ShapeX, quelle stesse teorie armolodiche che il sassofonista nordamericano inseguiva e che, forse, sono pura utopia. È in ciò che consiste l’essenza più preziosa di questo CD: nel calarsi, da parte dei musicisti, dentro lo spirito del fu Ornette Coleman e nel cercare di capire come avrebbe affrontato la fanfara The Band Comes Playing A Crazy Little March And Goes Away, la marcia funebre At The Funeral The Band Is Sad And Drunk o la rara bellezza di Human Voice. Un consiglio che posso dare al lettore, ed è lo stesso che darei a chi si appresta ad ascoltare la musica del grande sassofonista afroamericano, è quello di ascoltare i brani in più tempi, concentrandosi dapprima nella voce, poi nel sax, nel contrabbasso, nella tromba, nella batteria e in ultimo cercando di captare la musica nel suo insieme.
Termino la recensione a “Ornettiana” dandovi la notizia, interessante seppure non mi occupi particolarmente di premiazioni ufficiali, che il disco ha ottenuto la medaglia d’argento nelle sezioni free improvisation e female vocalist all’edizione Ottobre 2022 dei Global Music Awards della California. E chiudo con Monica Agosti dando menzione di un suo precedente progetto, privo di realizzazioni discografiche, chiamato NicaSphere e, di conseguenza, dedicato almeno in parte alla musica di Thelonious “Sphere” Monk, menzione che mi permette di stabilire un ponte non salviniano con la seconda recensione di questo top.
In questo caso, a differenza del tributo a Coleman di “Ornette”, l’omaggio al genio di Thelonious Monk passa attraverso la reinterpretazione di nove sue composizioni, fra le quali spiccano capisaldi come Evidence, Round Midnight e Crepuscule With Nellie. Fortunatamente, scrivo io, e il lettore, memore di quanto ho scritto qualche riga addietro, penserà che sono fuori di testa o che lo sto prendendo per i fondelli. Nessuna delle due opzioni, il fatto è che in questo caso l’unico riferimento concreto alla musica di Monk sta nei brani riproposti, ché del resto sono eseguiti soltanto con la viola come unico strumento. Uno strumento che Monk, durante la sua carriera, non mi pare abbia mai preso in considerazione in nessuna delle formazioni da lui guidate. Di conseguenza gli unici altri collegamenti fra il disco in questione e il pianista afroamericano stanno nel titolo dello stesso, “Monk On Viola”, oltreché nell’interesse di George Dumitriu per la sua musica. Se sulla carta la prova può apparire piuttosto complicata, alla resa dei conti va detto che Dumitriu la supera brillantemente. La sua, più che una reinterpretazione, è una riscrittura di Monk che avviene attraverso una doppia operazione. Da un lato c’è una strutturazione della musica che segue l’ottica del violista e dall’altro c’è una destrutturazione della viola che segue un’ottica monkiana. La musica si bilancia, spostandosi ora verso l’una e ora verso l’altra estremità, rispettosa di questa dicotomia. A essere rispettate sono comunque anche le spigolosità, le disarmonie, i silenzi e quella particolare concezione del ritmo che hanno fatto di Monk un esempio e un maestro per tutto il jazz a venire. Del violista, e anche chitarrista, rumeno abbiamo scritto in più occasioni recensendo i dischi del Kaja Draksler Octet, del Native Aliens Ensemble e del quartetto con Ab Baars, Ig Henneman e Pau Sola Masafrets.
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