Nella terza recensione dedicata alla chitarra fra i marosi della new wave of jazz è di scena il californiano Ernesto Diaz-Infante, che mi pare essere il più eclettico dei tre. Ci sono richiami ben precisi con gli altri due dischi recensiti, con quello di Mota in particolare perché anche qui siamo in presenza di un disco per sola chitarra (oltre al fatto che anch’esso viene pubblicato dal marchio del portoghese). Però le atmosfere più luminose lo avvicinano per un altro verso al mood di Perciballi, seppure qui non ci siano quasi mai quei fraseggi che caratterizzano il CD dell’italiano, a favore del rapporto fra vibrazioni sonore e relative risonanze. Rispetto al disco di Mota fanno testo anche le immagini scelte per le rispettive copertine: un ambiente in plein air che tende alla luce, in questo caso, contro l’interno dai caratteri claustrofobici che adombrava la copertina di “Cirrus” (l’immagine appariva ancor più destabilizzante per il fatto di essere proposta capovolta). Lo stesso titolo “Saca Los Cuernos al Sol”, ripreso da una canzone hispanica per bambini nella quale si invita una lumachina a uscire all’aria aperta, fa balenare in testa l’idea di voler espandere le note della chitarra verso la luce del sole. L’idea di Diaz-Infante, molto psichedelica, sembra essere quella di dilatare i riverberi verso l’infinito. Il penultimo brano, illuminante, fa pensare ai battiti su un gong o su una campana e alle conseguenti rifrazioni che si espandono con moto circolare (oppure, visivamente, ai cerchi creati da un sasso lanciato in acqua). Ognuno dei nove brani possiede però caratteristiche proprie, ora giocando su suoni brevi, alla maniera di un Palestine che martella con le dita i tasti del pianoforte, per poi concentrarsi su suoni lunghi, come quando viene utilizzato un e-bow. Estremamente creativo, e mai lezioso, Diaz-Infante ha realizzato uno di quei dischi in grado di soddisfare anche i palati più sopraffini. Così come una buona bottiglia di champagne.
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